L’altra sera passavo per Louis Blanc e la strada era piena di gente. Cercate di capirmi: erano le 5 e sarei arrivato ancora in ritardo al 421° campionato vesperale del Bar Bouilhou sotto casa. Poco prima della Chapelle, ingorgo mostruoso: strombazzamenti e urla a tutto spiano. Il marciapiede non riesce a stipare la piccola folla che deborda sulla strada, come alla partenza di un treno per Bombay. Il concerto di clacson non li sfiora neppure: ci snobbano, con la bocca aperta, un mezzo sorriso da neonato, gli occhi lucidi di birra e la sigaretta in bocca. Qualcuno, con un movimento spazientito della mano, fa loro segno di levarsi di torno ed eccoli che, guardando da un’altra parte con le braccia al cielo, strillano dei lamentosi «Birdie num num» in direzione di un ristorante pakistano. Mi dico: «ma questa povera gente sta facendo la fila per imparare la gastronomia francese, la bistecca col purè, la salsiccia con le patate fritte, per lavorare in una brasserie qualsiasi… che miseria». Osservo dunque un po’ meglio, addolcito dalla triste sorte di questi figli di Peshawar gettati sul selciato parigino, in pieno sfasamento culturale. Mi chiedo se i tipi non siano arrivati là perché hanno visto le «Bouffes du Nord» [1] non lontano, scambiandolo per un’agenzia interinale di cucinieri formati all’istante. Ma la loro attenzione era tutta rivolta alla vetrina di un negozio di televisori. Sugli schermi mi pare di riconoscere dei giocatori di cricket, tanto rigidi quanto le loro wickets. All’improvviso la folla indietreggia e scrosciano gli applausi. Cricket! Incredibile… Abbasso il finestrino e intravedo il mio amico del ristorante indiano dove vado talvolta a rimpinzarmi di Chicken Tikka Masala al prezzo di due birre. «Ashish!» urlo dalla portiera, «Ashish!». Il mio amico si gira e si apre un passaggio nell’assembramento raggiungendo, tutto felice, la mia portiera.
- Tutto bene?
- Ashish! Cos’è ‘sto delirio?
- Non ne sai niente? Semifinale del mondiale di cricket. India-Pakistan.
- Ah, un buon motivo per bloccare la strada, allora! Presto avrete tutto il vicinato alle calcagna. Chiameranno la polizia.
- Ma no, lo sanno tutti qui. Non è Paris St. Germain–Marsiglia, è cricket, sai, noi lo guardiamo tutti insieme. Il cricket è la pace, è una religione.
- Ok, il cricket è la pace, ma io avrei bisogno di passare. A che ora finisce?
- Al calar della notte.
- Ma stai scherzando?
- No.
- E vi succede quando si passa all’ora legale… Ok, Ashish, fammi un piacere. Di’ ai tuoi amici di aprire un varco, là davanti, cosi possiamo tornare a casa.
- Ok, aspetta un attimo.
Ashish si piazza davanti al cofano della mia auto, inchinandosi cortesemente con le mani giunte. A poco a poco, come un signore del Punjab, riesco ad avanzare regalmente tra la folla dei fedeli che mi inviano ostensibili segni di deferenza. Arrivato faticosamente al semaforo, sono salvo. Tuttavia mi assale un rimorso: non ho nemmeno chiesto ad Ashish quale squadra stava vincendo. Esco allora dall’auto per riparare alla mia scortesia, ma la silhouette di Ashish è già scomparsa in mezzo alla folla, compatta davanti alla vetrina del negozio di tv. Lo chiamo a gran voce un’ultima volta: «Ashish! Quanto? Ashish! Quanto?... » Neanche il tempo di finire la frase che un funzionario in uniforme mi appoggia la mano sulla spalla: «Ma faccia pure con comodo, prego!». Io divento più bianco di Louis Blanc e balbetto: «Ma no, aspetti! Ashish è il nome di un mio amico, in indù significa Benedizione, o qualcosa del genere»
«Ma certamente», mi dice l’agente guardando il pacchetto di sigarette rollate e le cartine sul cruscotto. «E anche lei è un appassionato di cricket? Documenti!»
Cricket Story, di Olivier Villepreux:
4 commenti:
Mi piace il tuo blog, sono tra i tuoi follower adesso. Quando hai tempo passa anche tu da me, se ti va, bacio
www.rivierabrides.com
Un applauso!!!!
che scena... bellissimo!
Sì, è un cronista sportivo che sa ancora scrivere, questo Villepreux.
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