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16 novembre 2012

«Non siamo al Parlamento italiano»

Messieurs La Russa et Pannella, je vous en prie: nous ne sommes pas au Parlement italien, conduisez-vous correctement - et arrêtez de faire ces gestes, me comprenez-vous? 

Please, Mr La Russa and Mr Pannella: we are not in the Italian Parliament, please behave properly - and stop making those gestures, do you understand?

(Da una ricerca su Linguee.fr, dizionario e motore di ricerca di traduzioni)

17 ottobre 2011

17 ottobre 1961

La folla defluì compatta verso il Rex, dove avvenne l'urto. I manganelli si abbatterono sulle teste nude, mal protette da braccia e mani. Un poliziotto prese una donna a schiaffi e calci, gettandola per terra. Un altro colpiva con tutte le sue forze l’addome di un ragazzo con il suo bastone d’ordinanza, fino a rompere il legno in due. Continuò a colpire servendosi del troncone più sbreccato. La sua vittima tendeva le mani per proteggersi, cercando di afferrare il manico di legno, ma ormai le sue dita spezzate non rispondevano più agli ordini. Una serie di detonazioni si udirono davanti alla piscina Neptune, dove stazionava un furgoncino. Dall’interno, tre agenti miravano con cura in direzione dei fuggitivi, colpendo ogni bersaglio. Un Ariane rossa e crema parcheggiata a meno di venti metri, dietro la quale dei musulmani tentavano di ripararsi, era crivellata di colpi. La gente correva urlando in tutte le direzioni. In preda al panico, inciampavano nei corpi caduti davanti alle verande dei caffè, in mezzo ai tavolini rovesciati, tra i bicchieri rotti, i vestiti coperti di sangue.
(Didier Daeninckx, Meurtres pour mémoire, Gallimard, p. 31

Il 17 ottobre 1961, il Fronte di Liberazione Nazionale algerino indice a Parigi una manifestazione per protestare contro il coprifuoco imposto ai nordafricani. La manifestazione pacifica viene repressa brutalmente dai reparti antisommossa della polizia e della gendarmeria che aprono il fuoco davanti ai manifestanti inermi, lasciando sul terreno decine di morti. Le forze dell’ordine arrestano circa 10.000 persone, deportandole in autobus requisiti alla RATP al Palais des Sports a Porte de Versailles e allo Stadio De Coubertin, nel XVI arrondissement. I due stadi saranno per tre giorni teatro di una macelleria messicana. Il prefetto di polizia di Parigi di allora aveva preparato personalmente i suoi uomini, assolvendoli in anticipo per gli abusi che avrebbero commesso. Il suo nome era Maurice Papon, lo stesso che nel 1942, a Bordeaux, firmava come segretario generale della prefettura della Gironda le autorizzazioni per la partenza dei treni degli ebrei verso Auschwitz.

Un collettivo di giovani registi ha realizzato un interessante e ricco webdocumentario sul soggetto, con la partecipazione - tra gli altri - di Jean Pierre Darroussin, Ariane Ascaride e Simon Abkarian (il Tony Le Dingue che abbiamo molto amato in Les Beaux Mecs).

6 aprile 2011

Una religione chiamata cricket

L’altra sera passavo per Louis Blanc e la strada era piena di gente. Cercate di capirmi: erano le 5 e sarei arrivato ancora in ritardo al 421° campionato vesperale del Bar Bouilhou sotto casa. Poco prima della Chapelle, ingorgo mostruoso: strombazzamenti e urla a tutto spiano. Il marciapiede non riesce a stipare la piccola folla che deborda sulla strada, come alla partenza di un treno per Bombay. Il concerto di clacson non li sfiora neppure: ci snobbano, con la bocca aperta, un mezzo sorriso da neonato, gli occhi lucidi di birra e la sigaretta in bocca. Qualcuno, con un movimento spazientito della mano, fa loro segno di levarsi di torno ed eccoli che, guardando da un’altra parte con le braccia al cielo, strillano dei lamentosi «Birdie num num» in direzione di un ristorante pakistano. Mi dico: «ma questa povera gente sta facendo la fila per imparare la gastronomia francese, la bistecca col purè, la salsiccia con le patate fritte, per lavorare in una brasserie qualsiasi… che miseria». Osservo dunque un po’ meglio, addolcito dalla triste sorte di questi figli di Peshawar gettati sul selciato parigino, in pieno sfasamento culturale. Mi chiedo se i tipi non siano arrivati là perché hanno visto le «Bouffes du Nord» [1] non lontano, scambiandolo per un’agenzia interinale di cucinieri formati all’istante. Ma la loro attenzione era tutta rivolta alla vetrina di un negozio di televisori. Sugli schermi mi pare di riconoscere dei giocatori di cricket, tanto rigidi quanto le loro wickets. All’improvviso la folla indietreggia e scrosciano gli applausi. Cricket! Incredibile… Abbasso il finestrino e intravedo il mio amico del ristorante indiano dove vado talvolta a rimpinzarmi di Chicken Tikka Masala al prezzo di due birre. «Ashish!» urlo dalla portiera, «Ashish!». Il mio amico si gira e si apre un passaggio nell’assembramento raggiungendo, tutto felice, la mia portiera.

- Tutto bene?
- Ashish! Cos’è ‘sto delirio?
- Non ne sai niente? Semifinale del mondiale di cricket. India-Pakistan.
- Ah, un buon motivo per bloccare la strada, allora! Presto avrete tutto il vicinato alle calcagna. Chiameranno la polizia.
- Ma no, lo sanno tutti qui. Non è Paris St. Germain–Marsiglia, è cricket, sai, noi lo guardiamo tutti insieme. Il cricket è la pace, è una religione.
- Ok, il cricket è la pace, ma io avrei bisogno di passare. A che ora finisce?
- Al calar della notte.
- Ma stai scherzando?
- No.
- E vi succede quando si passa all’ora legale… Ok, Ashish, fammi un piacere. Di’ ai tuoi amici di aprire un varco, là davanti, cosi possiamo tornare a casa.
- Ok, aspetta un attimo.

Ashish si piazza davanti al cofano della mia auto, inchinandosi cortesemente con le mani giunte. A poco a poco, come un signore del Punjab, riesco ad avanzare regalmente tra la folla dei fedeli che mi inviano ostensibili segni di deferenza. Arrivato faticosamente al semaforo, sono salvo. Tuttavia mi assale un rimorso: non ho nemmeno chiesto ad Ashish quale squadra stava vincendo. Esco allora dall’auto per riparare alla mia scortesia, ma la silhouette di Ashish è già scomparsa in mezzo alla folla, compatta davanti alla vetrina del negozio di tv. Lo chiamo a gran voce un’ultima volta: «Ashish! Quanto? Ashish! Quanto?... » Neanche il tempo di finire la frase che un funzionario in uniforme mi appoggia la mano sulla spalla: «Ma faccia pure con comodo, prego!». Io divento più bianco di Louis Blanc e balbetto: «Ma no, aspetti! Ashish è il nome di un mio amico, in indù significa Benedizione, o qualcosa del genere»
«Ma certamente», mi dice l’agente guardando il pacchetto di sigarette rollate e le cartine sul cruscotto. «E anche lei è un appassionato di cricket? Documenti!»

[1] Les Bouffes du Nord è il nome di un teatro, ma bouffe significa anche cibo.

Cricket Story, di Olivier Villepreux:

23 marzo 2011

«Dieci? Ma stai cercando di insultarmi?»

Dopo qualche giorno di trombe (e parecchi tromboni) trionfali, gli articoli scettici sull'intervento Occidentale in Libia si moltiplicano anche in Francia. Oggi è la volta di Jean-Yves Moisseron, vicedirettore della rivista Maghreb-Machrek, che dalle pagine di Le Monde sostiene apertamente la necessità di trattare con Gheddafi, considerata anche la situazione attuale:
«Le truppe fedeli a Gheddafi dispongono a tutt’oggi dei mezzi per consolidare le loro posizioni. Con i soldati alle porte delle città confusi in mezzo alla popolazione civile, nascosti nelle case, circondati da sostenitori e scudi umani, l’aviazione, i droni e i missili alleati saranno inutili. La logica della guerriglia urbana non ha molto a che vedere con quella delle operazioni in campo aperto. La guerra di movimento si trasformerà presto in guerra di trincea. In città, le battaglie si vincono casa per casa, nell’atrocità del corpo a corpo. Solo gli insorti possono assicurare questa riconquista sul terreno. Paradossalmente è proprio in questi combattimenti che si forgerà la loro legittimità a governare domani.»
Per evitare uno scenario potenzialmente disastroso, bisogna dunque negoziare:
«Le occasioni di apertura lanciate da Gheddafi non sono mai cessate dall’inizio delle ostilità ma noi in Occidente non l’abbiamo capito, disorientati da un modo di negoziare esotico. Eppure è lampante: Gheddafi è sempre pronto a negoziare. Ha passato la sua vita a negoziare con le tribù, con gli Stati arabi, con gli Stati africani, con la comunità internazionale. È un provetto conoscitore dei rapporti di forza, delle possibilità d’apertura, dello sfruttamento dei dissensi.»
A questo punto il mio pensiero vacilla tra l'ipotesi che 1) sì, è proprio così: uno dei più triti luoghi comuni sugli arabi è sotto gli occhi di tutti e la banda di fini analisti internazionali plurilaureati che deleghiamo a rappresentarci non se n'è proprio accorta e 2) no dai, non è possibile: la verità è che di negoziare, da questa parte del Mediterraneo, non interessa a nessuno.

Ma il buon Moisseron batte la strada del luogo comune e martella:
«Basta andare nel souk di qualunque medina araba e il suo comportamento diventa limpido e molto prevedibile. Lui rifiuta il negoziato e non propone nulla, perché così si fa per mercanteggiare un tappeto: non bisogna mai scoprire le proprie carte. Ma la sua strategia di comunicazione comporta delle aperture che bisogna cogliere.»


22 febbraio 2011

Tunisia, Egitto: quando il vento dell’est spazza l’arroganza dell’Occidente
Intervento di Alain Badiou su Le Monde

Il vento dell’est vince sul vento dell’ovest.
Fino a quando l’Occidente pigro e crepuscolare, la «comunità internazionale» di quelli che si credono ancora i padroni del mondo, continuerà a dare lezioni di buona gestione e buona condotta alla terra intera?
Non è ridicolo vedere certi intellettuali di servizio, soldati in rotta di un capital-parlamentarismo che ci fa da paradiso cencioso, fare dono della loro persona al magnifico popolo tunisino e a quello egiziano, per insegnare a questi popoli selvaggi l’abc della «democrazia»? Che penosa ostinazione dell’arroganza coloniale! Nella nostra situazione di miseria politica che dura da tre decenni, non è evidente che siamo noi ad avere tutto da imparare dalle attuali rivolte popolari? Non dobbiamo forse studiare da molto vicino e urgentemente tutto ciò che laggiù ha reso possibile il rovesciamento, attraverso l’azione collettiva, di governi oligarchici, corrotti e per di più – e forse è la cosa più importante – in posizione di vassallaggio umiliante rispetto agli Stati occidentali?

Sì, noi dobbiamo essere gli allievi di questi movimenti, e non i loro stupidi professori. Perché essi fanno rivivere, con il genio che è proprio delle loro invenzioni, alcuni principi politici dell’obsolescenza dei quali, da molto tempo, cercano di convincerci. Soprattutto quel principio che Marat non smetteva mai di ricordare: quando si tratta di libertà, di uguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle rivolte popolari.

Ribellarsi è giusto.
I nostri Stati e coloro i quali ne traggono profitto (partiti, sindacati e intellettuali servili) preferiscono la gestione alla politica, la rivendicazione alla rivolta, la «transizione ordinata» a qualsiasi rottura. Quello che il popolo egiziano e tunisino ci ricordano è che l’unica azione che sia all’altezza di un sentimento condiviso rispetto all’occupazione scandalosa del potere di Stato è la sollevazione in massa. E che, in questo caso, l’unica parola d’ordine che possa federare le componenti diverse della folla è: «tu che stai lì, vattene!». L’importanza eccezionale della rivolta, la sua potenza critica, sta nella parola d’ordine ripetuta da milioni di persone che dà la misura di quella che sarà, indubbia e irreversibile, la prima vittoria: la fuga dell’uomo designato. E qualsiasi cosa accada dopo, questo trionfo, illegale per natura, dell’azione popolare sarà stato per sempre vittorioso. Ma il fatto che una rivolta contro il potere statale possa essere assolutamente vittoriosa è un insegnamento di portata universale. Questa vittoria indica sempre l’orizzonte sul quale si staglia qualsiasi azione collettiva sottratta all’autorità della legge, quell’orizzonte che Marx ha chiamato «l’estinzione dello Stato».

Ciò vuol dire che un giorno, liberamente associati nello sviluppo della loro potenza creatrice, i popoli potranno fare a meno della funebre coercizione statale. È proprio per questo, proprio per questa idea ultima, che una rivolta che abbatte un’autorità stabilita genera, nel mondo intero, un entusiasmo senza limiti.

Gigi Ibrahim

Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria.
Tutto inizia con un uomo ridotto alla disoccupazione che si dà fuoco perché si vuole vietare il misero commercio che gli permette di sopravvivere; un uomo schiaffeggiato da una poliziotta perché capisca la realtà di questo triste mondo. Questo gesto si diffonde in pochi giorni, poche settimane, fino a raggiungere milioni di persone che gridano la loro gioia su una piazza lontana, fino a provocare la partenza in fretta e furia di potenti tiranni. Che cos’è questa favolosa espansione? La propagazione di un’epidemia di libertà? No. Come dice poeticamente Jean-Marie Gleize, «un movimento rivoluzionario non si diffonde per contagio ma per risonanza. Qualcosa che accade qui risuona con l’onda d’urto emessa da qualcosa che è accaduto laggiù». Questa risonanza la chiameremo «evento». L’evento non è la creazione improvvisa di una nuova realtà, ma la nascita di una miriade di nuove possibilità. Nessuna di loro ripete ciò che già conosciamo. Per questo è oscurantista sostenere che «questo movimento chiede la democrazia (sottintendendo «quella di cui noi godiamo in Occidente») oppure che «questo movimento chiede un miglioramento sociale» (sottintendendo «la prosperità media del nostro piccolo-borghese»). Partita dal nulla, risonante dappertutto, la sollevazione popolare crea possibilità sconosciute per il mondo intero. La parola «democrazia» non è nemmeno pronunciata in Egitto. Si parla di «nuovo Egitto», di «vero popolo egiziano», di assemblea costituente, di un cambiamento assoluto di esistenza, di possibilità inaudite e precedentemente sconosciute. Si tratta della nuova prateria che sostituirà quella che la scintilla della rivolta ha finalmente incendiato. Questa prateria futura si situa tra la dichiarazione di un rovesciamento delle forze e quella del farsi carico di compiti nuovi. Tra le parole di un giovane tunisino: «Noi, figli di operai e contadini, siamo più forti dei criminali» e quelle di un giovane egiziano: «A partire da oggi, 25 gennaio, io prendo in mano gli affari del mio paese».

Il popolo, soltanto il popolo, è il creatore della storia universale.
È stupefacente che nel nostro Occidente i governi e i media considerino i rivoltosi di una piazza del Cairo «il popolo egiziano». Ma come? Il popolo, l’unico popolo ragionevole e legale per queste persone non è di solito ridotto alla maggioranza di un sondaggio o a quella di un’elezione? Com’è possibile che improvvisamente, centinaia di migliaia di rivoltosi siano rappresentativi di un popolo di 80 milioni di persone? È una lezione da non dimenticare, e che noi non dimenticheremo.

Superata una certa soglia di determinazione, di ostinazione e coraggio, il popolo può effettivamente concentrare la sua esistenza su una piazza, in una via, in una fabbrica, in un’università. Il mondo intero sarà testimone di questo coraggio e delle incredibili creazioni che l’accompagnano e queste creazioni saranno la prova che un popolo esiste. Come ha detto con forza un manifestante egiziano: «prima io guardavo la tv, ora è la tv che mi guarda».

Risolvere problemi senza l’aiuto dello stato.
Sullo slancio di un evento, il popolo trova coloro i quali sanno risolvere i problemi che l’evento pone, come l’occupazione di una piazza: il cibo, il necessario per dormire, le guardie, gli striscioni, le preghiere, i combattimenti difensivi, perché il luogo dove accade tutto, il luogo-simbolo, sia mantenuto dal suo popolo, ad ogni costo. Problemi che sembravano insolubili – e a maggior ragione visto che su quella piazza lo Stato è scomparso – per le centinaia di migliaia di persone venute da tutto il paese. Risolvere senza l’aiuto dello stato dei problemi insolubili, è questo il destino di un evento. È questo ciò che fa che un popolo, improvvisamente e per un tempo indeterminato, esista nel luogo dove ha deciso di riunirsi.

Senza il movimento comunista, nessun comunismo.
La sollevazione popolare di cui parliamo è chiaramente senza partito, senza organizzazione egemonica, senza dirigenti riconosciuti. Avremo tempo di misurare se questa caratteristica sia una forza o una debolezza. In ogni caso, è proprio ciò che conferisce a questa rivolta tutti i tratti di quello che si può chiamare un comunismo di movimento sotto una forma molto pura, forse la più pura dopo la Comune di Parigi. «Comunismo» vuol dire qui: creazione comune di un destino collettivo. Questo «comune» possiede due aspetti particolari. Innanzitutto esso è generico e rappresenta, in un luogo, l’umanità intera. In questo luogo si trovano ogni sorta di persone che compongono un popolo, ogni parola è ascoltata, ogni proposta esaminata, ogni difficoltà trattata. In secondo luogo, questo «comune» supera tutte le grandi contraddizioni che lo Stato pretende gestire da solo senza mai riuscire a superarle: tra intellettuale e manuale, tra uomo e donna, tra povero e ricco, tra musulmano e copto, tra provinciale e cittadino…

A muslim cleric holding Quran and a cross in #Tahrir square.
Riguardo queste contraddizioni, migliaia di nuove possibilità sorgono ad ogni istante, possibilità di fronte alle quali lo Stato – qualunque Stato – è totalmente cieco. Si vedono giovani donne medico, venute dalla provincia a curare i feriti, dormire in mezzo a un gruppo di ragazzi, più tranquille che mai perché sanno che nessuno torcerà loro un capello. Si vede un’organizzazione di ingegneri parlare con i giovani delle periferie per supplicarli di tenere la piazza, di proteggere il movimento con la loro forza. Si vedono schiere di cristiani che montano la guardia vegliare in piedi sui musulmani inginocchiati in preghiera. Si vedono commercianti dar da mangiare ai disoccupati e ai poveri. Ognuno parla ai suoi vicini sconosciuti. Si leggono mille striscioni nei quali la vita di ognuno si mescola senza soluzione di continuità alla grande Storia di tutti. L’insieme di queste situazioni, di queste invenzioni, costituisce il comunismo di movimento. Sono due secoli che l’unico problema politico è: «come far durare nel tempo le invenzioni del comunismo di movimento?». E l’unica risposta reazionaria rimane sempre: «ciò è impossibile o addirittura nocivo. Bisogna affidarsi allo Stato». Gloria al popolo tunisino ed egiziano che ci ricordano il vero e unico dovere politico: di fronte allo Stato, la fedeltà organizzata al comunismo di movimento.

Noi non vogliamo la guerra, ma non ne abbiamo paura.
Si è parlato ovunque della calma pacifica di manifestazioni gigantesche e si è collegata questa calma all’ideale di democrazia elettiva che si attribuiva al movimento. Constatiamo tuttavia che ci sono stati centinaia di morti e che ce ne sono ancora ogni giorno. In molti casi, questi morti sono stati combattenti e martiri dell’esordio del movimento, poi della protezione del movimento stesso. I luoghi politici e simbolici della rivolta hanno dovuto essere presidiati contro i miliziani e le polizie dei regimi minacciati. E chi ha pagato di persona se non i giovani delle classi più povere? Che le «classi medie» – delle quali, la nostra insperata Michèle Alliot-Marie [1] ha detto che il compimento democratico degli eventi in corso dipendeva da loro e da loro soltanto – tengano a mente che nel momento cruciale, la durata dell’insurrezione è stata garantita soltanto dall’impegno incondizionato dei reparti popolari. La violenza difensiva è inevitabile. E continua del resto in Tunisia, in condizioni difficili, dopo che i giovani attivisti della provincia sono stati rispediti alla loro miseria.

Possiamo seriamente pensare che il fine ultimo di queste innumerevoli iniziative e di questi dolorosi sacrifici sia portare le persone a «scegliere» tra Souleiman e El Baradei, come qui da noi ci siamo miseramente rassegnati a scegliere tra Sarkozy e Strauss-Kahn? Sarebbe questa l’unica lezione di questo splendido episodio?

No, mille volte no! Il popolo tunisino e quello egiziano ci dicono: ribellarsi, costruire il luogo pubblico del comunismo di movimento, difenderlo con tutti i mezzi e inventare le tappe successive dell’azione, è questa la realtà di una politica di emancipazione popolare. Non sono solo gli Stati dei paesi arabi ad essere antipopolari e, in fondo, elezioni o meno, illegittimi. Quale che sarà il futuro, le rivolte tunisine ed egiziane hanno una portata universale e prescrivono nuove possibilità il cui valore è internazionale.

Alain Badiou, LeMonde.fr | 18.02.11

(Alain Badiou è filosofo e insegna all’Ecole Normale Supérieure)

[1] Ministro degli Affari Esteri francese che ha collezionato una sfilza di “gaffes” sulla rivoluzione tunisina ed è attualmente sotto accusa per aver avuto rapporti molto stretti con il clan Ben Ali.

18 febbraio 2011

Rivolte nel mondo arabo. La nostra arroganza colonialista

Le interpretazioni francesi delle rivolte popolari nel mondo arabo sono buoni indicatori di come noi percepiamo questo stesso mondo. Mentre l’Europa si avvita sul suo pessimismo, lamentandosi della sua crisi, popoli sottomessi al giogo di tiranni rialzano la testa e si battono per la libertà.
Un’occasione per dare un po’ di coraggio, scuotere la nostra apatia e impegnarci nella lotta per una società più giusta e meno «aristocratica».

Un inatteso «choc delle civiltà»
Intorpidita dal benessere e alienata dallo spettro della disoccupazione, la Francia della Rivoluzione francese osserva forse la rivoluzione nei paesi arabi con invidia, mentre la sua élite politica e alcuni dei suoi intellettuali temono questi sconvolgimenti e li commentano seguendo griglie di lettura di altri tempi, ereditate dal colonialismo. Si chiedono come mai gli antichi colonizzati sono capaci di ribellarsi, questi «ritardati della civiltà», questi «islamici-terroristi» obnubilati dalla loro religione «retrograda». Le donne che in occidente volevamo liberare levando loro il velo, stanno portando avanti la rivolta – con o senza velo –, a fianco degli uomini, su un piano di uguaglianza, laggiù nelle pubbliche piazze.

Per di più, questi «emarginati» della modernità hanno fatto la loro rivoluzione attraverso i mezzi tecnologici più sofisticati, mentre noi li utilizziamo la maggior parte del tempo per dire al mondo che stiamo facendo una passeggiata o che stiamo festeggiando un compleanno… È proprio questo il vero senso dello «choc delle civiltà»[1], il nostro rincorrere i grandi entusiasmi, le grandi cause suscettibili di cambiare la nostra società. Prigionieri del nostro conservatorismo, siamo costretti a confrontarci con un’esplosione positiva che si è data come obiettivo la destituzione dei tiranni e degli sfruttatori immorali e disonesti.

L’islam come griglia di lettura
Noi abbiamo letto gli eventi attraverso la lente d’ingrandimento dell’islamismo, nemico della modernità e dell’Occidente. Certo queste tendenze esistono all’interno dell’islam e non sono estranee al mondo arabo, il quale è tuttavia multiforme e irriducibile allo schema che noi imponiamo sia all’islam in Occidente che all’islam nel mondo arabo. L’Iran è diventato il centro di ogni nostra riflessione che viene applicata a tutto ciò che si muove nel Mediterraneo musulmano.

In pratica, noi abbiamo trattato questi paesi in ebollizione con l’arroganza ereditata dal colonialismo, dimenticando persino che questi stessi popoli si erano già rivoltati contro lo stesso colonialismo e avevano ottenuto l’indipendenza a prezzo di grandi lotte. Non è la prima volta che prendono il proprio destino in mano come dei veri adulti, non come bambini. La diplomazia preferisce la stabilità all’ignoto. Tuttavia è nell’ignoto che risiede l’avvenire di queste società che aspirano ai diritti universali, non soltanto prerogativa dell’Illuminismo ma bene comune dell’umanità.

Lo spauracchio degli islamisti non basta più a farli arretrare. E se i movimenti di obbedienza islamica si posizionano sullo scacchiere politico e arrivano al potere attraverso un processo democratico, l’Occidente non potrà intervenire per fermarli. La Turchia è governata da una specie di «democrazia musulmana» e nonostante ciò il paese conosce una crescita economica da far impallidire l’Europa, senza perdere il suo dinamismo, la sua creatività e la sua inventiva. Qualcuno potrebbe sostenere che l’emergenza di una «democrazia cristiana» in Europa sarebbe anch’essa un assalto contro le libertà, mentre le destre estreme razziste, islamofobe e populiste insidiano il potere? Ovviamente no. Ma come riuscire a spiegarlo?

Islam, Israele e rivolte in territorio arabo.
Le Point del 3 febbraio e L’Express del 9 rispondono attraverso la loro copertina. Da un lato, una donna velata musulmana, con il titolo «Lo spettro islamico». Dall’altro, una giovane soldatessa israeliana in procinto di indossare il suo elmetto con il titolo «Israele di fronte al risveglio arabo».
La simbologia è chiara: da una parte l’islam retrogrado, dall’altra Israele, moderno e alleato dell’Occidente. Il paragone, non fortuito, ossessiona le menti di molti intellettuali dall’ideologia acrobatica. Secondo il loro avviso (e quello di alcuni «esperti», la maggior parte dei quali conoscono pochissimo la regione), le rivolte nel mondo arabo sfoceranno necessariamente nell’islamismo, cosa che metterebbe in pericolo Israele. Iran, Hamas, Hezbollah, Tunisia, Egitto, sono la stessa cosa. Se l’Olanda non è uguale alla Francia, perché l’Egitto deve assomigliare all’Iran e la Tunisia al Libano?

Alle prossime elezioni, in mancanza di reali programmi politici, qualche partito agiterà il drappo verde dell’islam. Ma sì: perché perdere tempo a sostenere ciò che accade in questo Mediterraneo che ci è così vicino e che, democratizzandosi, si avvicinerà ancor di più ai paesi occidentali per ricostruire in un vero mare nostrum, un insieme di partner democratici e non corrotti?

L’altra paura è che gli islamici al potere mettano Israele in pericolo. Ma si pensa davvero che da un giorno all’altro questi paesi cesseranno le loro relazioni con Israele? Che Israele è solo, fragile e senza difese nella regione? Che l’equilibrio geopolitico verrebbe sconvolto da un giorno all’altro da una democrazia che rimpiazza una tirannide? E che saranno sicuramente (inevitabile fatalismo) gli islamisti, come in Iran, a prendere il potere? Eccoci ancora una volta nelle maglie della rete dove si aggrovigliano islamismo, conflitto israelo-palestinese, eredità coloniale, rifiuto dell’islam e arroganza occidentale.

Le visite pagate dal principe arabo
Anche le visite a spese di questi principi corrotti, effettuate dal nostro Primo ministro e dal nostro ministro degli Affari esteri, ricordano altri tempi, quando ci si andava a servire «laggiù», in cambio del sostegno quantomeno «morale» di despoti locali o regionali poco raccomandabili. Lo stesso ambasciatore francese in Tunisia si è rivelato incapace di guardare con obiettività alla rivolta che si svolgeva sotto le sue finestre, accecato dalla sua visione delle cose: la stabilità (desiderata) del regime di Ben Ali. La stabilità e i dirigenti con i quali sappiamo parlare così bene, sono decisamente più importanti per la nostra élite politica della libertà dei popoli arabi, della quale non sanno che farsene.

A quando una rivoluzione della nostra mentalità per riuscire a vedere al di là del nostro naso e progredire? Sì, abbiamo proprio bisogno di uno «choc» per scuoterci profondamente e risvegliare le nostre società addormentate.

Esther Benbassa insegna Storia dell'Ebraismo moderno all'EPHE ed è Direttrice del «Centre Alberto-Benveniste d’études sépharades et d’histoire socioculturelle des Juifs». L'originale dell'articolo è qui: http://www.rue89.com/passage-benbassa/2011/02/11/revoltes-dans-le-monde-arabe-notre-arrogance-colonialiste-189970

[1] Il riferimento è alla teoria dello «scontro delle civiltà» di Huntington. Il testo gioca sul doppio senso di «choc» in francese («scontro» e «scossa»).

13 gennaio 2011

Sognare è urgente


La rivolta del popolo tunisino è arrivata ad un punto di non ritorno. Le manifestazioni sono quotidiane, in tutto il paese, come si può vedere in questo video a Kairouan, dove la piazza riesce a stento a contenere le persone. A Zaghouane, Mahdia, Monastir, il popolo è sceso in piazza a reclamare la fine della dittatura. Le manifestazioni hanno già raggiunto Djerba e i sobborghi di Tunisi. Il presidente Ben Ali, secondo alcune informazioni, avrebbe già "esfiltrato" le figlie e i rispettivi mariti a Montréal. Su Facebook e su Twitter, in questo momento sta girando la voce che lui stesso potrebbe lasciare il paese in serata.
Oscurata dai media tradizionali, la rivolta si riproduce, frammentata, nelle reti sociali (facebook, twitter, Youtube). La rivoluzione non passerà in TV, ma sarà filmata e messa su YouTube.
L'esercito, in qualche caso, si è schierato a fianco dei manifestanti, ma la polizia continua ad essere fedele al presidente e spara con proiettili veri sulla folla: i morti sono ormai più di cinquanta. Tra le vittime, un professore e ricercatore franco-tunisino, Hatem Bettahar, che insegnava all'Università di Compiègne. 

Di fronte ad una rivolta di tale dimensioni, il silenzio francese ed europeo è più che assordante. L'Europa -  governanti e intellettuali, politici e giornalisti/moralisti - si volta dall'altra parte, comprensibilmente imbarazzata del comportamento di uno dei suoi più brillanti cani da guardia contro «il pericolo islamista» e «l'invasione dei barbari» nel nostro ricco occidente. Pronta a difendere i diritti umani in Iran, in Venezuela e altrove (perfettamente in linea con la politica degli stati canaglia di George W. Bush che non sembra essere cambiata di un millimetro), la patria dell'illuminismo, la culla della civiltà dalle radici giudaico-cristiane, fa finta di non vedere che una cricca mafiosa regna da vent'anni sull'altra sponda del mediterraneo (qui un dossier sugli intrecci tra potere politico e potere economico), cricca il cui capo dà l'ordine di sparare impunemente sul proprio popolo.
«Al di là del saccheggio organizzato, della corruzione massiccia, dell’appropriazione mafiosa dei beni pubblici e della confisca di beni e proprietà private, il problema sono le scelte economiche orientate verso uno scatenato liberalismo capitalista, preoccupato quasi esclusivamente di soddisfare in modo servile la domanda europea (più dell’80% degli scambi commerciali della Tunisia sono con l’UE), fino a fare della Tunisia, sul piano turistico, una sorta di dépendance delle “case di riposo” europee, incomparabilmente più economiche e soleggiate.»
(Sidi-Bouzid – Tunisia: elogio di una rivolta già tradita o del diritto-dovere di resistere all'oppressione...e al tradimento, lungo ma interessantissimo testo di analisi e proposta politica e filosofica).
Il popolo tunisino, mentre continua a morire per strada, sta dando una lezione di civiltà, di democrazia, di dignità a tutti gli europei. Dagli interventi di studenti, giornalisti, membri della cosiddetta "società civile" pubblicati sul portale nawaat.org, emerge un'impressionante lucidità di analisi, una volontà insopprimibile di libertà, una capacità di organizzare la lotta e la protesta, una precisione sugli obiettivi da raggiungere.
«La Tunisia, la corruzione, le tangenti… abbiamo solo voglia di andarcene, a studiare in Francia, in Canada… Vogliamo abbandonare tutto. Siamo vigliacchi, e lo accettiamo. Lasciamo loro il paese. Andiamo in Francia, dimentichiamo un po’ la Tunisia. Torniamo per le vacanze. La Tunisia? Sono le spiaggie di Sousse e Hammamet, i locali notturni e i ristoranti. Questa è la tunisia, un gigante club med. E poi, Wikileaks rivela clamorosamente ciò che tutti mormoravano. E poi, un giovane si dà fuoco. E poi, 20 tunisini sono assassinati in un giorno. E per la prima volta, vediamo l’occasione di ribellarci, di vendicarci di questa famiglia reale che si è appropriata di tutto, di rovesciare l’ordine stabilito che ha accompagnato la nostra gioventù.Una gioventù educata, che non ne può più e che si appresta ad immolare tutti i simboli di questa antica Tunisia autocratica con una nuova rivoluzione, la rivoluzione del Gelsomino, quella vera.»
(Une jeunesse vécue sous l'ombre de Ben Ali)
Un popolo che è ancora capace di sognare, insomma, e di prendere in mano il proprio futuro:
«Siamo soli, isolati, in preda alla collera e all’inquietudine. Fronteggiamo un regime che si sta sbagliando di secolo e di paese.
Questa rivolta dei tunisini non può essere rivendicata da nessun partito politico, nessuna organizzazione, nessuna associazione. Nessuna figura dell’opposizione può rivendicarla o assumersene la paternità.
Questa rivolta viene dal popolo e al popolo appartiene. Questo popolo che alcuni immaginano arretrato sta dando una lezione alla sua classe politica e al mondo.
Le manipolazioni ideologiche non subentreranno ad una collera spontanea e popolare.
È compito dell’élite del nostro paese rispondere all’appello e immaginare l’avvenire. Noi dobbiamo costruire un nostro modello politico, economico, sociale e culturale. Noi dobbiamo mostrare al mondo che cos’è una democrazia araba.
È urgente sognare una Tunisia portatrice di speranza per tutti.
Due condizioni inderogabili per questo.
Bisogna riappropriarci del diritto alla parola, diritto al quale non avremmo mai dovuto rinunciare. Un diritto necessario perché scaturiscano le idee, fioriscano le intelligenze e si sposino tra loro per procreare il nostro futuro comune.
L’altra conditio sine qua non è la contrattualizzazione del rapporto tra i tunisini e le loro élites politiche: queste ultime devono essere al nostro servizio e non il contrario.

Perché i sacrifici non siano vani, è urgente sognare la Tunisia di domani.
Sogniamo.»

19 ottobre 2010

Jaques Prévert, Citroën


Sulla porta delle case chiuse
Brilla una piccola luce
Qualcosa di fievole, di discreto
Una piccola lanterna, un lumicino
Ma su Parigi addormentata
Una gran luce si diffonde
Una gran luce monta sulla torre
Una luce cruda
E' la lanterna del bordello capitalista
Con il nome del tenutario
che brilla nella notte
Citroën, Citroën!
E' il nome di un piccolo uomo
Un piccolo uomo con delle cifre in testa
Un piccolo uomo con uno sguardo strano
Dietro il suo monocolo
Un piccolo uomo che sa una sola canzone
Sempre la stessa
Utili netti
Una canzone con cifre che danzano
300 macchine, 600 macchine al giorno
Monopattini, roulottes, spedizioni, autocingolati, camion
Utili netti
Milioni, milioni, milioni, milioni
CitroënCitroën
Anche in sogno si sente il suo nome
500, 600, 700 macchine
800 autotreni, 800 carri armati al giorno
200 carri funebri al giorno
200 carri funebri
E di corsa!
Lui sorride, continua la sua canzone
Non ascolta la voce degli uomini che fabbricano
Non ascolta la voce degli operai
Se ne fotte degli operai
Un operaio è come una gomma vecchia
Quando una si crepa, non la si sente nemmeno crepare
Citroën non ascolta, Citroën non capisce
E' duro d'orecchi quando si tratta di operai
Però al Casinò la sente bene la voce del croupier
Un milione, signor Citroën, un milione
Se vince, tanto meglio, ha vinto
Ma se perde, non è lui che perde
Sono i suoi operai
Sono sempre quelli che fabbricano
Che, in fin dei conti, sono raggirati
Ed eccolo che passeggia a Deauville
Eccolo a Cannes, che esce dal Casinò
Eccolo a Nizza che fa il bello
Sulla Promenade des Anglais, con una giacca chiara
Bel tempo, oggi! 

Eccolo che passeggia, che prende un po' d'aria
Anche a Parigi prende l'aria
Prende l'aria degli operai, prende loro l'aria, il tempo, la vita
E quando ce n'è uno che sputa i polmoni in fabbrica
I polmoni rovinati dalla sabbia e dagli acidi
Gli rifiuta una bottiglia di latte
Che cosa glie ne può fottere di una bottiglia di latte?
Non è mica lattaio lui, lui è Citroën
Ha il suo nome sulla torre
Ha colonnelli ai suoi ordini
Colonnelli scribacchini, aguzzini, spioni
I giornalisti
 mangiano dalla sua mano
Il prefetto striscia sul suo zerbino
Limoni, limoni
Utili netti, milioni, milioni
Oh, se la cifra d'affari cala
Perché gli utili non diminuiscano
Basta aumentare il ritmo e abbassare i salari
Abbassare i salari
Ma coloro che sono stati per troppo tempo
Tosati come cagnolini
Hanno ancora una mascella da lupo
Per mordere, per difendersi

Per attaccare
Per fare sciopero
Lo sciopero

Lo sciopero

Viva lo sciopero!


(Jacques Prévert, Citroën)

L'originale qui: http://laflaneuse.org/la-greve/

13 ottobre 2010

Dialogo semivero tra Nicolas Sarkozy e il suo consigliere sociale a proposito di un editoriale di un giornale di sinistra sulla riforma delle pensioni

(Il capo dello Stato francese, all'Eliseo, chiama a gran voce il nome di Raymond Soubie, «consigliere sociale» del capo dello Stato francese).

- Mi ha chiamato, Nicolas?
- Dieci volte.
- Non ho sentito: stavo rispondendo ai giornalisti.
- Appunto, Raymond: volevo sapere se è stato lei a scrivere l’editoriale di Laurent Joffrin uscito ieri su Libération.
- Io?
- Lei.
- Assolutamente no.
- Eppure, guardi: quello che c’è scritto ricorda furiosamente i suoi appunti sulla riforma delle pensioni.
- Non è una novità.
- Certo, ma fino a questo punto! Già inizia con lo scrivere che «Tutti possono capire che sono necessari dei sacrifici».
- Ho letto.
- Ma non è il fondamento delle nostre menzogne?
- Temo di sì.
- E poi, guardi ancora, scrive pure che «la maggioranza dei francesi, palesemente, giudica che non si può rimanere a questo punto e che una riforma, questa o un’altra, è necessaria».
- Fedele Joffrin!
- E qui ancora – giuro che qui mi sembra davvero lei – eccolo che fustiga «coloro i quali sperano in una radicalizzazione del movimento»!
- Aaaaahhh… i piccoli bastardi!
- E ascolti questa, Raymond: «Le dirigenze sindacali, ai vertici e nelle imprese, non possono trasformarsi in mercanti di illusioni»!
- Non l’avrei detto meglio.
- Ma appunto: non è stato scritto sotto la sua dettatura?
- Le giuro di no.
- Ma Joffrin non è di sinistra?
- Certo che sì: ma di destra.

(L’originale qui)

4 ottobre 2010

Étrangers partout, nuit blanche 2010

Se c’è un solo mondo, tutti coloro che ci vivono esistono come me, ma non sono uguali a me, sono diversi. Il mondo unico è precisamente il luogo dove esiste l’infinità delle differenze. Il mondo è trascendentalmente lo stesso proprio perché gli abitanti di questo mondo sono diversi. Se si chiede invece a coloro che vivono nel mondo di essere tutti uguali, il mondo allora si chiude e diventa – in quanto mondo – diverso da un altro mondo. Ciò prepara inevitabilmente le separazioni, i muri, i controlli, il disprezzo, i morti e, infine, la guerra.
(Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom?, 2005)



Étrangers partout, installazione dell'artista collettivo Claire Fontaine (nota biografica qui, manifesto qui) in Rue Sainte Marthe (Paris 10e) per la Nuit Blanche 2010.

1 ottobre 2010

TV e politica. Del pubblico e del privato


In Francia, in questi giorni, fa notizia uno scambio di cortesie tra il deputato PS Arnaud Montebourg e il Direttore Generale di TF1, prima tv privata francese di proprietà del colosso dell’edilizia e delle telecomunicazioni Bouygues. Il deputato PS avrebbe dichiarato ad un giornalista, a microfoni spenti, che è il momento di «picchiare duro su TF1: è la tv della destra, la tv che veicola idee che distruggono la Francia; è la tv dell’individualismo, la tv dei soldi, la tv del martellamento sull’insicurezza». Il microfono però non era spento e la dichiarazione fa il giro del web. Nonce Paolini, direttore di TF1, manda allora al deputato una richiesta di scuse per le sue parole, giudicate “inammissibili”. Arnaud Montebourg, nella lunga lettera che invia in risposta, non solo non si scusa ma attacca ancora più a fondo la politica culturale di TF1: «Se c’è qualcuno che deve presentare delle scuse - dice Montebourg - è piuttosto TF1 che deve scusarsi con la Francia intera». Di seguito una serie di estratti piuttosto interessanti dalla lettera del deputato PS che può essere letta integralmente qui:

Il canale che lei dirige utilizza a fini commerciali il dominio pubblico herziano, proprietà pubblica che appartiene alla Nazione intera. Di questa proprietà, TF1 e i suoi azionisti sono, secondo la legge, solamente utilizzatori a titolo precario e concessionari fragili ed effimeri. Lo sguardo libero e intransigente di un rappresentante della nazione sul comportamento di un canale che fa un utilizzo contestabile di questo bene pubblico, è parte dei suoi doveri politici e morali elementari. TF1 non ha altra scelta che accettare, piaccia o meno, ogni critica pubblica del suo operato, poiché la televisione rimane un bene collettivo appartenente a tutti i francesi, anche quando essa si esercita nella forma dell’impresa privata che lei presiede. […]

I rapporti di vicinanza politica tra l’orientamento editoriale di TF1 e il potere attuale pone il problema, in una democrazia, del rispetto del pluralismo e della separazione degli interessi pubblici da quelli privati. TF1, a questo proposito, ha una lunga, per così dire, fedina penale, costituita da richiami all’ordine e sanzioni per violazione delle regole del pluralismo politico. Ultimamente, lei ha ritenuto di dover dare la parola per più di 2 ore al Presidente della Repubblica, capo del partito di maggioranza, in un orario di massimo ascolto, lasciando soltanto 4 minuti alla replica della principale dirigente dell’opposizione. Ancora, secondo il Consiglio Superiore degli Audiovisisivi, nel primo trimestre 2010, cumulando TF1 e LC1, il vostro canale di informazione, lei ha offerto 32 ore di tempo di parola al Presidente della Repubblica, al Governo e all’UMP contro 8 ore ai membri dell’opposizione. […]

L’enormità delle violazioni, la pesantezza delle sanzioni e la ripetizione delle infrazioni da più di quindici anni mi portano a considerare la condotta di TF1 come un continuo disprezzo delle nostre leggi e delle nostre regole. Malgrado questi comportamenti biasimevoli, TF1 ha nondimeno ottenuto dai governi e dalle maggioranze parlamentari che si sono succeduti numerosi privilegi e vantaggi indebiti: attenuazione del dispositivo anticoncentrazione, rinnovamento automatico della concessione senza bando di concorso, diritto a una seconda interruzione pubblicitaria durante i film, introduzione forzata sulla tv digitale terrestre - che ha provocato le vive reazioni dei suoi concorrenti. […] TF1 esercita, con la complicità dello Stato, un monopolio privato vantaggioso e incontrollabile su un bene pubblico.[...]

Ma non sono questi i problemi più gravi. Sul piano culturale, bisogna ricordare i danni considerevoli che il suo canale ha provocato sulla visione che i francesi hanno di loro stessi e della nostra società contemporanea. Io mi permetto di sostenere, come è giusto che un rappresentante della Nazione possa farlo, che lei ha partecipato con metodo e costanza all’impoverimento dell’immaginario collettivo dei Francesi. Nella settimana dal 29 settembre al 5 ottobre 2010, lei ha scelto di consacrare 41 ore e mezzo a trasmissioni legate al denaro, televendite o giochi il cui motore principale è l’allettamento del lucro. Le relazioni tra gli uomini non dipendono unicamente dal denaro e una società non potrà mai ridursi a ciò. Eppure su TF1 il denaro è sciaguratamente ovunque. […]

Nel 1987, la società Bouygues aveva ottenuto il diritto di comprare TF1 facendo valere un preteso e sedicente “miglioramento culturale”. Il suo illustre predecessore, Patrick Le Lay, dichiarò, quasi 20 anni più tardi: “Quello che noi vendiamo a Coca-Cola è tempo disponibile del cervello umano”. Ricordo che qualche giorno dopo questa dichiarazione, la Società dei Compositori e degli Autori dichiarava: “Le parole del presidente di TF1 testimoniano del livello di degrado che può raggiungere la tv, sono segno di cinismo, disprezzo e arroganza.” […] Lei converrà con me che non è illegittimo pensare che il suo canale abbia una considerevole responsabilità nella degradazione del livello del dibattito democratico francese e della rappresentazione che i francesi hanno di loro stessi.

1 luglio 2010

Non si sa mai

- Rabbino, ho una domanda.
- Fai la tua domanda, Birkat Hacohanim.
- Bene. Gli ashkenaziti, dopo aver mangiato la carne, aspettano cinque ore prima di bere del latte, i sefarditi tre. Immaginiamo che io - Dio non voglia - debba mangiare con uno di questi ebrei che vengono dal freddo e che abbia voglia di bere del latte quattro ore dopo la sbobba, o Dio solo sa che carne fanno in Polonia.
- Ebbene?
- Ebbene, ho il diritto, in quanto sefardita, di bere del latte oppure dovrei conformarmi, per rispetto, ai suoi costumi di ebreo polare?
- Tu conosci degli ashkenaziti, Birkat Hacohanim?
- No.
- E allora perché mi fai questa domanda?

(Joann Sfar, Le chat du rabbin 2. Le Malka des Lions)

28 giugno 2010

Bienvenue chez Raymonde (Humour francese /2)


Quando il popolo scende in piazza, creando scompiglio e confusione
Passate una serata tra amici!
Conosco un posticino dove tutta Parigi si accalca
Che ha aperto martedì
Benvenuti da Raymonde
Tutta la notte, non ci si annoia mai
Si dimenticano gli scandali e le ingiustizie sociali
E si ride!
Benvenuti da Raymonde
Tutta la notte, non ci si annoia mai
Gli artisti sono un bel diversivo e tutti applaudono!

Stasera, da Raymonde, potrete applaudire il più vecchio uomo-cannone del mondo, sul suo seggiolino eiettabile, Jean-Pierre Escalette(1)! Ma ci sarà anche Henri il Mago, colui che fa apparire la Francia in Coppa del Mondo e che la fa immediatamente scomparire. Senza dimenticare il mimo Duverne(2) e il suo famoso “lanciatore di cronometro”. E anche il clown Malouda, che fa piangere i bambini perché segna sempre al momento sbagliato. Ma chi vedo arrivare nel pubblico? Un invitato a sorpresa!

Avanzando in mezzo al pubblico di teppisti e politici
Ecco il presidente Sarkozy
Con lo stile e il portamento dei capetti immaturi(3)
Comanda ai suoi ministri sottomessi.

Questa sera da Raymonde abbiamo un parterre di prima scelta, poiché accanto al nostro caro presidente Sarkozy troviamo il suo omologo italiano, Benito Berlusconi, che arriva fresco fresco da casa di Lippi: “Ciao, Benito!” Oh, ed ecco Roselyne La Petomane(4), con il suo numero!
Brava Roselyne! Tutti sono rimasti fino alla fine per il clou dello spettacolo, dove verrà svelato il traditore!

- Grazie Raymonde, grazie Raymonde!
- È un piacere lavorare per Lei!

(1) Presidente della federazione francese di calcio.
(2) Preparatore atletico della Francia, famoso per aver sfiorato la rissa con Evra dopo “l’affaire Anelka”.
(3) Riferimento alle frequenti critiche dei politici alla squadra, costituita, a loro dire, da immaturi “caïds de banlieue”.
(4) Ministra della Sanità e dello Sport che ha tentato di fare della sconfitta della Francia un affare di Stato.

17 maggio 2010

Luoghi comuni da centomila anni

ALBIONE
Sempre preceduta da bianca, perfida, positiva. C'è mancato poco che Napoleone la conquistasse. Farne l'elogio: la libera Inghilterra.
(Gustave Flaubert, Dictionnaire des idées reçues)

23 marzo 2010

Borderline



La metro chiude all'una
La metro riapre alle sei del mattino
Monoprix* apre alle 10
Monoprix chiude alle 20
I bambini escono alle 7
I bambini ritornano alle 17
La cena inizia alle 20
Alle 20.30 si sparecchia
Son borderline
Sei borderline
Lui è borderline
Noi siamo borderline
La signora del terzo piano esce alle 10
La signora del terzo piano ritorna alle 11
L'ASSEDIC** apre alle 9
L'ASSEDIC chiude alle 16
Cominci a lavorare alle 9
Finisci di lavorare alle 19
Ti addormenti alle 23
Ti svegli alle 7 del mattino
E' borderline
Lui è borderline
Noi siamo borderline
Il semaforo verde si accende a mezzanotte
Il semaforo rosso a mezzanotte e due
Il semaforo verde torna a mezzanotte e quattro
Quello rosso a mezzanotte e sei
La signora del terzo piano esce alle 21
La signora del terzo piano torna alle 21 e 30
L'ascensore scende alle 21 e 30
Risale alle 21 e 31
Son borderline
Sei borderline
Lui è borderline
Noi siamo borderline
Ok, d'accordo, benissimo, d'accordo, Ok, d'accordo, benissimo, Ok
Un telefono a mezzogiorno e sedici
Un grido alle 15 e 07
Una voce d'uomo alle 22
Un gatto all'una di notte
Una radio alle 2 e venti
Una Mercedes alle 5 di mattina
Va tutto bene!
Va tutto BENE!
VA TUTTO BENE!
Son borderline
Sei borderline
Lui è borderline
Noi siamo borderline


* La Standa francese.
**(Centro di collocamento, diventato ora ANPE, Agenzia per l'impiego).

11 marzo 2010

Così è la vita

Le disperazioni delle bambine sono dei freni possenti che rallentano la corsa del mondo. Ma così è la vita. Da grandi esse si vendicano, a ragione, facendo in modo che il mondo giri ancora più veloce.

(Jean-Bernard Pouy, L'Équarrisseur)

25 febbraio 2010

La mia identità nazionale

[Ok: la smetterò di spammare il blog con traduzioni di articoli. Questo però l'ho trovato davvero bello e volevo condividerlo con i non francofoni]

Il soggetto, lanciato dalle più alte autorità del paese, è stato ripreso dalla stampa, in più o meno cattiva fede. Devo tuttavia confessare che questo dibattito mi è sfuggito completamente. Come alla maggior parte dei francesi, suppongo.
Ma oggi la questione mi ha colpito in pieno: «Quale Dipartimento vuole?» mi ha chiesto il meccanico. Ero lì, con il mio libretto nuovo, per far mettere le targhe sulla macchina che mi sono appena regalato: una 4x4 di otto anni fa, imbarazzante, inquinante e per dirla tutta, anacronistica.
«Eh?»
La macchina è immatricolata nel 27 [Eure], il meccanico sta nel 95 [Val d'Oise], io abito nel 78 [Yvelines] e sono nato nel 92 [Hauts-de-Seine].
«Non si può farne a meno?», gli domando ingenuamente.
«No, è obbligatorio, ma lei può scegliere il Dipartimento che preferisce». Allora mi offre un caffè e discutiamo un po', lui e io, per arrivare alla conclusione, pienamente condivisa, che siamo comunque fortunati a vivere in un'epoca in cui si può scegliere qualcosa di obbligatorio...
E mentre mi montava le targhe, io mi lasciavo andare ad una riflessione.
Sono nato in Francia, da un padre greco e da una madre «dell'Assistenza», come si diceva all'epoca. Non so dove si siano conosciuti, ma propendo per la banchina di un binario. Non stavano fermi un attimo. Passavamo il nostro tempo a traslocare, sembravamo dei fuggiaschi. Devo essere uno dei rari bambini ad aver frequentato una buona dozzina di scuole diverse tra la materna e la media. Non che la cosa abbia inciso sui miei studi, poiché avevo comunque deciso di non combinare nulla.
Mio padre è stato naturalizzato cittadino francese dopo la guerra, ma non per meriti militari. Quando avrebbe voluto arruolarsi per difendere il paese che lo aveva accolto, lo hanno sbattuto in un campo. Credo lo chiamassero un «centro di raduno per stranieri». Sembra che ci fossero persone di ogni nazionalità. Certo, non era mica Auschwitz, ma era duro, da quello che ci ha raccontato. Soprattutto il freddo. Lo hanno liberato quando ha iniziato a sputare sangue. Perché non infettasse gli altri, suppongo. La Francia, non riconoscente ma forse pentita, ha deciso di naturalizzare questi stranieri che aveva sbattuto nei campi.
Molto tempo dopo, quando mio padre non era già più di questo mondo, la sua storia mi è tornata in mente mentre chiedevo una nuova carta d'identità. Al comune mi hanno detto: «Ah, lei è nato da un padre straniero! Bisogna provare che lei ha optato per la nazionalità francese prima della sua maggiore età». O il contrario, non mi ricordo più.
Fu allora che ebbi un primo dubbio. Prima, la questione non mi aveva mai nemmeno sfiorato. Ero funzionario, poliziotto da parecchi anni. Da giovane mi avevano mandato a visitare il Maghreb e, cercando bene in fondo a qualche cassetto, avrei forse potuto trovare qualche ninnolo di queste avventure passate.
Ma io ero veramente Francese?
E oggi, davanti a questo meccanico dall'accento venuto d'altrove, la domanda mi si è ripresentata sotto un altro punto di vista: Francese sì, ma di quale regione? Nessun parente né in Bretagna né in Corsica. Nessuna casa di famiglia con la soffitta zeppa di ricordi pieni di ragnatele, nessun pezzo di terra al quale aggrapparmi.

Un po' disorientato, ho ripreso il volante della mia 4x4 di un'altra epoca, munita delle sue targhe belle nuove, con su stampato 973.
Da quando ho letto Papillon, ho sempre avuto voglia di visitare la Guyana.

(L'originale è qui. George Moréas, ex-commissario di polizia e scrittore, ha un blog invitato su Le Monde: Police et cetera).

5 febbraio 2010

L'esercito israeliano ha cambiato le sue regole per la guerra a Gaza

Un anno dopo l'offensiva israeliana su Gaza (27 dicembre 2008 - 17 gennaio 2009), mentre Israele sostiene la tesi di un'operazione conforme al diritto internazionale, alcune testimonianze esclusive, raccolte da Le Monde, gettano una luce sinistra sui metodi dell'esercito israeliano. Nel momento in cui Israele continua a rifiutare di aprire un'inchiesta indipendente sulle accuse di crimini di guerra formulati dal rapporto Goldstone, commissionato dall'ONU, queste testimonianze indicano che l'Alto Comando di Tsahal ha instaurato una procedura di apertura del fuoco molto permissiva rispetto alle regole ufficiali.
La controversia gravita attorno ad una formula-chiave del gergo militare israeliano: «emtza'im vé kavana» («i mezzi e le intenzioni»), un binomio familiare a tutti i soldati che codifica il loro comportamento in terreno ostile.
Secondo questa formula, un individuo viene considerato un bersaglio soltanto se è armato («i mezzi») e se manifesta un'intenzione di nuocere («le intenzioni»). Un memorandum destinato ai coscritti, datato 2006, che Le Monde ha potuto consultare, prescrive che «sparare su una persona armata è unicamente consentito se si dispone di informazioni concrete che indichino che questa persona ha intenzione di agire contro le nostre forze».
Ma nel mese di agosto 2009, davanti ad un giornalista del quotidiano Yediot Aharonot, un ufficiale superiore ha riconosciuto per la prima volta che queste restrizioni, fondamenti dell'etica militare israeliana, erano state rimosse durante l'operazione «Piombo fuso». «I mezzi e le intenzioni è una terminologia adatta ad un'operazione di arresti in Cisgiordania. L'esercito israeliano è venuto fuori malconcio dalla seconda guerra del Libano a causa di una terminologia inadatta. Il concetto di "mezzi e intenzioni" è figlio di circostanze differenti. Qui non si tratta di una classica operazione antiterrorista [...] La persona che deve azionare ordigni esplosivi non ha bisogno di portare un kalashnikov. Gli basta camminare, osservare, paralare al telefono e bum! Cinque soldati saltano in aria. [...] La differenza è netta».
L'inchiesta del giornalista di Yediot Aharonot non è mai stata pubblicata. Le parole dell'ufficiale, di cui Le Monde ha potuto prendere conoscenza, contraddicono la versione ufficiale che mette l'accento sul rispetto delle leggi militari e considera le morti di civili come «incidenti isolati», inevitabili di fronte ad un nemico pronto a nascondersi nelle zone abitate. «Se le parole dell'ufficiale descrivono effettivamente le regole di ingaggio in vigore durante l'operazione "Piombo fuso", allora si tratta di una prova che conferma le accuse contro Israele», dice l'avvocato Michaël Sfard, difensore dei Palestinesi. «"I mezzi e le intenzioni" sono i parametri secondo i quali una persona viene identificata come combattente. Rinunciare anche ad uno solo di essi equivale ad accordare una licenza di uccidere i civili», aggiunge.
I 22 giorni di offensiva si erano chiusi con un'ecatombe da parte palestinese (1385 morti, di cui 762 non combattenti, secondo l'organizzazione israeliana B'Tselem) e con la morte di 13 israeliani (10 soldati e 3 civili).
In luglio 2009, l'associazione israeliana Breaking the Silence aveva pubblicato una serie di testimonianze di soldati che hanno combattuto a Gaza. «Se non sei sicuro, uccidi», diceva uno di loro. «Ci hanno detto che è una guerra, e che in una guerra l'apertura del fuoco non ha restrizioni», spiegava un altro. Lo Stato Maggiore israeliano aveva immediatamente parlato di «campagna di diffamazione», assicurando che Tsahal è «uno degli eserciti più morali del mondo».
Secondo Mikhael Manekin, vicedirettore di Breaking the Silence, la confessione involontaria dell'ufficiale corrobora a posteriori le testimonianze raccolte. «Le regole di apertura del fuoco sono state radicalmente modificate. In alcune zone non ve ne erano proprio. Si tratta di una violazione della legge e del codice militare israeliano».
Un altro ufficiale incontrato da Le Monde spiega la logica soggiacente a questa deriva. Di stanza nel quartier generale di una brigata, proprio di fronte a Gaza, egli ha potuto osservare da vicino lo sviluppo dell'offensiva. «L'idea-forza era che Hamas non rispetta le regole del gioco, visto che i suoi militanti non hanno uniforme e non portano sempre le armi. Abbiamo allora deciso anche noi di aggirare le regole. I nostri comandanti precisavano che ciò non implicava il disprezzo della vita dei civili. Contrariamente a quello che afferma il rapporto Goldstone, io non penso che l'esercito abbia ucciso deliberatamente dei civili. Era chiaro, però, che noi dovevamo fare cifra; che da Saïd Siam (l'ex ministro degli interni di Hamas, ucciso in un bombardamento) al semplice impiegato di un'organizzazione caritativa, ogni membro di Hamas era un terrorista che meritava di essere ucciso. Era altrettanto chiaro che la protezione della vita dei soldati aveva la priorità», precisa l'ufficiale.
Secondo questo testimone privilegiato, il principio del rischio zero si è tradotto in una tecnica di messa in sicurezza del terreno in tre tempi. All'inizio, si inondava la zona di volantini che intimavano alla popolazione di partire in un dato lasso di tempo. Successivamente, si scrutava il terreno alla ricerca della minima presenza sospetta. A questo punto, se era il caso, si inviavano dei droni armati di missili. «I nostri parametri erano semplici – dice l'ufficiale. Un individuo di sesso maschile, che non è né un bambino né un anziano, che cammina per strada al di là dell'ora limite, diventa un sospetto. Conosco almeno un caso in cui questa verifica è bastata per tirare un missile su un palestinese. È soltanto dopo che l'agente dello Shin Beth (il servizio di sicurezza interna) ci dice se il missile ha ucciso la persona giusta. È il principio dell'assassinio mirato, ma al contrario. Prima si uccide, e poi si verifica che fosse giustificato».
In tutta risposta, l'esercito israeliano si riferisce a un rapporto del luglio 2009, intitolato «L'operazione a Gaza, aspetti pratici e legali». Secondo questo documento, le regole di apertura del fuoco durante l'operazione «Piombo fuso» stipulavano che «solo i bersagli militari devono essere attaccati» e che «qualsiasi attacco contro obiettivi civili deve essere proibito».

Benjamin Barthe

Articolo originale: http://www.lemonde.fr/proche-orient/article/2010/02/03/enquete-sur-les-methodes-de-tsahal-a-gaza_1300502_3218.html