Visualizzazione post con etichetta mediterraneo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta mediterraneo. Mostra tutti i post

30 gennaio 2012

Bir zamanlar Anadolu'da (C'era una volta in Anatolia)

Le aspirazioni verso l'alto non sono le nostre. Gli eroi, i martiri, i geni e gli entusiasti non sono per noi abbastanza silenziosi, pazienti, sottili, freddi e lenti.
(F. Nietzsche, Frammenti Postumi, 1886, 7[70])


1. La lunga notte del commissario Naci.
Il commissario Naci ha un sacco di problemi: ha smesso di fumare, ha un figlio malato, non riesce più a trovare il vero yogurt di bufala (quello che vendono alla latteria vicino al commissariato è pastorizzato e al supermercato non ne parliamo: hanno quello “parzialmente scremato”. Un orrore). Ma il problema più grave del Commissario Naci è Kenan, che ha confessato un omicidio ma non si ricorda (o fa finta di non ricordarsi) dove ha seppellito il corpo. Una carovana di due macchine e una jeep percorre di notte una campagna fatta di dolci colline brulle, fermandosi ad ogni fontanella. Il procuratore (con evidenti problemi di prostata) è ansioso di risolvere il caso. Il medico legale è presente, ma ha la testa altrove. La notte è lunga, Kenan non parla e il commissario, a un certo punto, perde le staffe. E’ il momento di fare una pausa, altrimenti finisce male. Il sindaco del villaggio è contento di ospitare alte personalità e ne approfitta per chiedere al procuratore di intercedere presso il prefetto per l’allargamento del cimitero. Manca una camera mortuaria, gli emigrati vogliono vedere i propri cari prima della sepoltura ma finché arrivano, i morti puzzano. Sono questi i problemi reali che scaturiscono improvvisamente, con un’ironia tutta naturale, a spezzare la bellissima poesia di cui è fatto questo film. La notte si chiude con l’apparizione simbolica di un angelo: Tarkovskij è vivo e lotta insieme a noi. 


2. L’alba livida di Keskin.
L’apparizione scioglie l’intrigo: Kenan decide di ricordare e all’alba tutta la comitiva ritrova la sepoltura. La luce del giorno scopre una terra brulla, dei visi segnati (le facce incredibili che hanno questi attori), un cadavere sotterrato. L’ibrido felicissimo tra l'occhio orientale (i critici hanno citato Čechov e Dostoevskij) e la realtà fisica, quanto più meridionale e mediterranea possibile, è la cifra del film. E l’ibrido è sempre al lavoro, impedendo l’estetizzazione dello sguardo, riportando sempre sulla terra ogni tentativo di volo metafisico, mantenendo un equilibrio tra la poesia e la realtà, tra un estetismo simbolista (la scena quasi Stalkeriana della mela che cade dall’albero e rotola nel ruscello) e un verismo iperrealista (la scena stupenda dell’autopsia). L’ironia diventa spesso vera e propria comicità, come quando fa cozzare la lingua procedurale della giustizia contro la povertà del reale, l’assurdità della burocrazia incarnata dal sergente dei Gendarmi (Siamo a Frittole-di-sopra o a Frittole-di-sotto?), con la scarsità dei mezzi materiali. Una comicità quasi sciasciana e surreale (e questa Anatolia è davvero una Sicilia – un Meridione tutto Unheimlich: Franz mi ha ricordato, giustamente, anche Camilleri) che emerge in molte scene come quella, bellissima, della riesumazione: la battuta su Clark Gable, il sacco per il cadavere, il problema di come trasportare il corpo, l’autista che raccoglie i meloni.

Trovato il cadavere, la comitiva rientra a Keskin, dove ritrova le vedove e gli orfani, i figli malati e le vite di prima. Il film si chiude sul rapporto a due tra il procuratore e il medico legale, invischiati in una sorta di indagine su un passato oscuro iniziata la notte prima e che coinvolge sempre di più i due funzionari, fino alla consapevolezza, inevitabile e struggente, dell'accaduto.

Fotografia meravigliosa, musica assente o quasi (ma il film è sensualissimo, pieno di suoni e - quasi - di odori), C’era una volta in Anatolia, di Nuri Bilge Ceylan è un grosso film, come non ne vedevo dai tempi di There Will Be Blood
Un film Umano, troppo umano.

23 marzo 2011

«Dieci? Ma stai cercando di insultarmi?»

Dopo qualche giorno di trombe (e parecchi tromboni) trionfali, gli articoli scettici sull'intervento Occidentale in Libia si moltiplicano anche in Francia. Oggi è la volta di Jean-Yves Moisseron, vicedirettore della rivista Maghreb-Machrek, che dalle pagine di Le Monde sostiene apertamente la necessità di trattare con Gheddafi, considerata anche la situazione attuale:
«Le truppe fedeli a Gheddafi dispongono a tutt’oggi dei mezzi per consolidare le loro posizioni. Con i soldati alle porte delle città confusi in mezzo alla popolazione civile, nascosti nelle case, circondati da sostenitori e scudi umani, l’aviazione, i droni e i missili alleati saranno inutili. La logica della guerriglia urbana non ha molto a che vedere con quella delle operazioni in campo aperto. La guerra di movimento si trasformerà presto in guerra di trincea. In città, le battaglie si vincono casa per casa, nell’atrocità del corpo a corpo. Solo gli insorti possono assicurare questa riconquista sul terreno. Paradossalmente è proprio in questi combattimenti che si forgerà la loro legittimità a governare domani.»
Per evitare uno scenario potenzialmente disastroso, bisogna dunque negoziare:
«Le occasioni di apertura lanciate da Gheddafi non sono mai cessate dall’inizio delle ostilità ma noi in Occidente non l’abbiamo capito, disorientati da un modo di negoziare esotico. Eppure è lampante: Gheddafi è sempre pronto a negoziare. Ha passato la sua vita a negoziare con le tribù, con gli Stati arabi, con gli Stati africani, con la comunità internazionale. È un provetto conoscitore dei rapporti di forza, delle possibilità d’apertura, dello sfruttamento dei dissensi.»
A questo punto il mio pensiero vacilla tra l'ipotesi che 1) sì, è proprio così: uno dei più triti luoghi comuni sugli arabi è sotto gli occhi di tutti e la banda di fini analisti internazionali plurilaureati che deleghiamo a rappresentarci non se n'è proprio accorta e 2) no dai, non è possibile: la verità è che di negoziare, da questa parte del Mediterraneo, non interessa a nessuno.

Ma il buon Moisseron batte la strada del luogo comune e martella:
«Basta andare nel souk di qualunque medina araba e il suo comportamento diventa limpido e molto prevedibile. Lui rifiuta il negoziato e non propone nulla, perché così si fa per mercanteggiare un tappeto: non bisogna mai scoprire le proprie carte. Ma la sua strategia di comunicazione comporta delle aperture che bisogna cogliere.»


22 febbraio 2011

Tunisia, Egitto: quando il vento dell’est spazza l’arroganza dell’Occidente
Intervento di Alain Badiou su Le Monde

Il vento dell’est vince sul vento dell’ovest.
Fino a quando l’Occidente pigro e crepuscolare, la «comunità internazionale» di quelli che si credono ancora i padroni del mondo, continuerà a dare lezioni di buona gestione e buona condotta alla terra intera?
Non è ridicolo vedere certi intellettuali di servizio, soldati in rotta di un capital-parlamentarismo che ci fa da paradiso cencioso, fare dono della loro persona al magnifico popolo tunisino e a quello egiziano, per insegnare a questi popoli selvaggi l’abc della «democrazia»? Che penosa ostinazione dell’arroganza coloniale! Nella nostra situazione di miseria politica che dura da tre decenni, non è evidente che siamo noi ad avere tutto da imparare dalle attuali rivolte popolari? Non dobbiamo forse studiare da molto vicino e urgentemente tutto ciò che laggiù ha reso possibile il rovesciamento, attraverso l’azione collettiva, di governi oligarchici, corrotti e per di più – e forse è la cosa più importante – in posizione di vassallaggio umiliante rispetto agli Stati occidentali?

Sì, noi dobbiamo essere gli allievi di questi movimenti, e non i loro stupidi professori. Perché essi fanno rivivere, con il genio che è proprio delle loro invenzioni, alcuni principi politici dell’obsolescenza dei quali, da molto tempo, cercano di convincerci. Soprattutto quel principio che Marat non smetteva mai di ricordare: quando si tratta di libertà, di uguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle rivolte popolari.

Ribellarsi è giusto.
I nostri Stati e coloro i quali ne traggono profitto (partiti, sindacati e intellettuali servili) preferiscono la gestione alla politica, la rivendicazione alla rivolta, la «transizione ordinata» a qualsiasi rottura. Quello che il popolo egiziano e tunisino ci ricordano è che l’unica azione che sia all’altezza di un sentimento condiviso rispetto all’occupazione scandalosa del potere di Stato è la sollevazione in massa. E che, in questo caso, l’unica parola d’ordine che possa federare le componenti diverse della folla è: «tu che stai lì, vattene!». L’importanza eccezionale della rivolta, la sua potenza critica, sta nella parola d’ordine ripetuta da milioni di persone che dà la misura di quella che sarà, indubbia e irreversibile, la prima vittoria: la fuga dell’uomo designato. E qualsiasi cosa accada dopo, questo trionfo, illegale per natura, dell’azione popolare sarà stato per sempre vittorioso. Ma il fatto che una rivolta contro il potere statale possa essere assolutamente vittoriosa è un insegnamento di portata universale. Questa vittoria indica sempre l’orizzonte sul quale si staglia qualsiasi azione collettiva sottratta all’autorità della legge, quell’orizzonte che Marx ha chiamato «l’estinzione dello Stato».

Ciò vuol dire che un giorno, liberamente associati nello sviluppo della loro potenza creatrice, i popoli potranno fare a meno della funebre coercizione statale. È proprio per questo, proprio per questa idea ultima, che una rivolta che abbatte un’autorità stabilita genera, nel mondo intero, un entusiasmo senza limiti.

Gigi Ibrahim

Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria.
Tutto inizia con un uomo ridotto alla disoccupazione che si dà fuoco perché si vuole vietare il misero commercio che gli permette di sopravvivere; un uomo schiaffeggiato da una poliziotta perché capisca la realtà di questo triste mondo. Questo gesto si diffonde in pochi giorni, poche settimane, fino a raggiungere milioni di persone che gridano la loro gioia su una piazza lontana, fino a provocare la partenza in fretta e furia di potenti tiranni. Che cos’è questa favolosa espansione? La propagazione di un’epidemia di libertà? No. Come dice poeticamente Jean-Marie Gleize, «un movimento rivoluzionario non si diffonde per contagio ma per risonanza. Qualcosa che accade qui risuona con l’onda d’urto emessa da qualcosa che è accaduto laggiù». Questa risonanza la chiameremo «evento». L’evento non è la creazione improvvisa di una nuova realtà, ma la nascita di una miriade di nuove possibilità. Nessuna di loro ripete ciò che già conosciamo. Per questo è oscurantista sostenere che «questo movimento chiede la democrazia (sottintendendo «quella di cui noi godiamo in Occidente») oppure che «questo movimento chiede un miglioramento sociale» (sottintendendo «la prosperità media del nostro piccolo-borghese»). Partita dal nulla, risonante dappertutto, la sollevazione popolare crea possibilità sconosciute per il mondo intero. La parola «democrazia» non è nemmeno pronunciata in Egitto. Si parla di «nuovo Egitto», di «vero popolo egiziano», di assemblea costituente, di un cambiamento assoluto di esistenza, di possibilità inaudite e precedentemente sconosciute. Si tratta della nuova prateria che sostituirà quella che la scintilla della rivolta ha finalmente incendiato. Questa prateria futura si situa tra la dichiarazione di un rovesciamento delle forze e quella del farsi carico di compiti nuovi. Tra le parole di un giovane tunisino: «Noi, figli di operai e contadini, siamo più forti dei criminali» e quelle di un giovane egiziano: «A partire da oggi, 25 gennaio, io prendo in mano gli affari del mio paese».

Il popolo, soltanto il popolo, è il creatore della storia universale.
È stupefacente che nel nostro Occidente i governi e i media considerino i rivoltosi di una piazza del Cairo «il popolo egiziano». Ma come? Il popolo, l’unico popolo ragionevole e legale per queste persone non è di solito ridotto alla maggioranza di un sondaggio o a quella di un’elezione? Com’è possibile che improvvisamente, centinaia di migliaia di rivoltosi siano rappresentativi di un popolo di 80 milioni di persone? È una lezione da non dimenticare, e che noi non dimenticheremo.

Superata una certa soglia di determinazione, di ostinazione e coraggio, il popolo può effettivamente concentrare la sua esistenza su una piazza, in una via, in una fabbrica, in un’università. Il mondo intero sarà testimone di questo coraggio e delle incredibili creazioni che l’accompagnano e queste creazioni saranno la prova che un popolo esiste. Come ha detto con forza un manifestante egiziano: «prima io guardavo la tv, ora è la tv che mi guarda».

Risolvere problemi senza l’aiuto dello stato.
Sullo slancio di un evento, il popolo trova coloro i quali sanno risolvere i problemi che l’evento pone, come l’occupazione di una piazza: il cibo, il necessario per dormire, le guardie, gli striscioni, le preghiere, i combattimenti difensivi, perché il luogo dove accade tutto, il luogo-simbolo, sia mantenuto dal suo popolo, ad ogni costo. Problemi che sembravano insolubili – e a maggior ragione visto che su quella piazza lo Stato è scomparso – per le centinaia di migliaia di persone venute da tutto il paese. Risolvere senza l’aiuto dello stato dei problemi insolubili, è questo il destino di un evento. È questo ciò che fa che un popolo, improvvisamente e per un tempo indeterminato, esista nel luogo dove ha deciso di riunirsi.

Senza il movimento comunista, nessun comunismo.
La sollevazione popolare di cui parliamo è chiaramente senza partito, senza organizzazione egemonica, senza dirigenti riconosciuti. Avremo tempo di misurare se questa caratteristica sia una forza o una debolezza. In ogni caso, è proprio ciò che conferisce a questa rivolta tutti i tratti di quello che si può chiamare un comunismo di movimento sotto una forma molto pura, forse la più pura dopo la Comune di Parigi. «Comunismo» vuol dire qui: creazione comune di un destino collettivo. Questo «comune» possiede due aspetti particolari. Innanzitutto esso è generico e rappresenta, in un luogo, l’umanità intera. In questo luogo si trovano ogni sorta di persone che compongono un popolo, ogni parola è ascoltata, ogni proposta esaminata, ogni difficoltà trattata. In secondo luogo, questo «comune» supera tutte le grandi contraddizioni che lo Stato pretende gestire da solo senza mai riuscire a superarle: tra intellettuale e manuale, tra uomo e donna, tra povero e ricco, tra musulmano e copto, tra provinciale e cittadino…

A muslim cleric holding Quran and a cross in #Tahrir square.
Riguardo queste contraddizioni, migliaia di nuove possibilità sorgono ad ogni istante, possibilità di fronte alle quali lo Stato – qualunque Stato – è totalmente cieco. Si vedono giovani donne medico, venute dalla provincia a curare i feriti, dormire in mezzo a un gruppo di ragazzi, più tranquille che mai perché sanno che nessuno torcerà loro un capello. Si vede un’organizzazione di ingegneri parlare con i giovani delle periferie per supplicarli di tenere la piazza, di proteggere il movimento con la loro forza. Si vedono schiere di cristiani che montano la guardia vegliare in piedi sui musulmani inginocchiati in preghiera. Si vedono commercianti dar da mangiare ai disoccupati e ai poveri. Ognuno parla ai suoi vicini sconosciuti. Si leggono mille striscioni nei quali la vita di ognuno si mescola senza soluzione di continuità alla grande Storia di tutti. L’insieme di queste situazioni, di queste invenzioni, costituisce il comunismo di movimento. Sono due secoli che l’unico problema politico è: «come far durare nel tempo le invenzioni del comunismo di movimento?». E l’unica risposta reazionaria rimane sempre: «ciò è impossibile o addirittura nocivo. Bisogna affidarsi allo Stato». Gloria al popolo tunisino ed egiziano che ci ricordano il vero e unico dovere politico: di fronte allo Stato, la fedeltà organizzata al comunismo di movimento.

Noi non vogliamo la guerra, ma non ne abbiamo paura.
Si è parlato ovunque della calma pacifica di manifestazioni gigantesche e si è collegata questa calma all’ideale di democrazia elettiva che si attribuiva al movimento. Constatiamo tuttavia che ci sono stati centinaia di morti e che ce ne sono ancora ogni giorno. In molti casi, questi morti sono stati combattenti e martiri dell’esordio del movimento, poi della protezione del movimento stesso. I luoghi politici e simbolici della rivolta hanno dovuto essere presidiati contro i miliziani e le polizie dei regimi minacciati. E chi ha pagato di persona se non i giovani delle classi più povere? Che le «classi medie» – delle quali, la nostra insperata Michèle Alliot-Marie [1] ha detto che il compimento democratico degli eventi in corso dipendeva da loro e da loro soltanto – tengano a mente che nel momento cruciale, la durata dell’insurrezione è stata garantita soltanto dall’impegno incondizionato dei reparti popolari. La violenza difensiva è inevitabile. E continua del resto in Tunisia, in condizioni difficili, dopo che i giovani attivisti della provincia sono stati rispediti alla loro miseria.

Possiamo seriamente pensare che il fine ultimo di queste innumerevoli iniziative e di questi dolorosi sacrifici sia portare le persone a «scegliere» tra Souleiman e El Baradei, come qui da noi ci siamo miseramente rassegnati a scegliere tra Sarkozy e Strauss-Kahn? Sarebbe questa l’unica lezione di questo splendido episodio?

No, mille volte no! Il popolo tunisino e quello egiziano ci dicono: ribellarsi, costruire il luogo pubblico del comunismo di movimento, difenderlo con tutti i mezzi e inventare le tappe successive dell’azione, è questa la realtà di una politica di emancipazione popolare. Non sono solo gli Stati dei paesi arabi ad essere antipopolari e, in fondo, elezioni o meno, illegittimi. Quale che sarà il futuro, le rivolte tunisine ed egiziane hanno una portata universale e prescrivono nuove possibilità il cui valore è internazionale.

Alain Badiou, LeMonde.fr | 18.02.11

(Alain Badiou è filosofo e insegna all’Ecole Normale Supérieure)

[1] Ministro degli Affari Esteri francese che ha collezionato una sfilza di “gaffes” sulla rivoluzione tunisina ed è attualmente sotto accusa per aver avuto rapporti molto stretti con il clan Ben Ali.

18 febbraio 2011

Rivolte nel mondo arabo. La nostra arroganza colonialista

Le interpretazioni francesi delle rivolte popolari nel mondo arabo sono buoni indicatori di come noi percepiamo questo stesso mondo. Mentre l’Europa si avvita sul suo pessimismo, lamentandosi della sua crisi, popoli sottomessi al giogo di tiranni rialzano la testa e si battono per la libertà.
Un’occasione per dare un po’ di coraggio, scuotere la nostra apatia e impegnarci nella lotta per una società più giusta e meno «aristocratica».

Un inatteso «choc delle civiltà»
Intorpidita dal benessere e alienata dallo spettro della disoccupazione, la Francia della Rivoluzione francese osserva forse la rivoluzione nei paesi arabi con invidia, mentre la sua élite politica e alcuni dei suoi intellettuali temono questi sconvolgimenti e li commentano seguendo griglie di lettura di altri tempi, ereditate dal colonialismo. Si chiedono come mai gli antichi colonizzati sono capaci di ribellarsi, questi «ritardati della civiltà», questi «islamici-terroristi» obnubilati dalla loro religione «retrograda». Le donne che in occidente volevamo liberare levando loro il velo, stanno portando avanti la rivolta – con o senza velo –, a fianco degli uomini, su un piano di uguaglianza, laggiù nelle pubbliche piazze.

Per di più, questi «emarginati» della modernità hanno fatto la loro rivoluzione attraverso i mezzi tecnologici più sofisticati, mentre noi li utilizziamo la maggior parte del tempo per dire al mondo che stiamo facendo una passeggiata o che stiamo festeggiando un compleanno… È proprio questo il vero senso dello «choc delle civiltà»[1], il nostro rincorrere i grandi entusiasmi, le grandi cause suscettibili di cambiare la nostra società. Prigionieri del nostro conservatorismo, siamo costretti a confrontarci con un’esplosione positiva che si è data come obiettivo la destituzione dei tiranni e degli sfruttatori immorali e disonesti.

L’islam come griglia di lettura
Noi abbiamo letto gli eventi attraverso la lente d’ingrandimento dell’islamismo, nemico della modernità e dell’Occidente. Certo queste tendenze esistono all’interno dell’islam e non sono estranee al mondo arabo, il quale è tuttavia multiforme e irriducibile allo schema che noi imponiamo sia all’islam in Occidente che all’islam nel mondo arabo. L’Iran è diventato il centro di ogni nostra riflessione che viene applicata a tutto ciò che si muove nel Mediterraneo musulmano.

In pratica, noi abbiamo trattato questi paesi in ebollizione con l’arroganza ereditata dal colonialismo, dimenticando persino che questi stessi popoli si erano già rivoltati contro lo stesso colonialismo e avevano ottenuto l’indipendenza a prezzo di grandi lotte. Non è la prima volta che prendono il proprio destino in mano come dei veri adulti, non come bambini. La diplomazia preferisce la stabilità all’ignoto. Tuttavia è nell’ignoto che risiede l’avvenire di queste società che aspirano ai diritti universali, non soltanto prerogativa dell’Illuminismo ma bene comune dell’umanità.

Lo spauracchio degli islamisti non basta più a farli arretrare. E se i movimenti di obbedienza islamica si posizionano sullo scacchiere politico e arrivano al potere attraverso un processo democratico, l’Occidente non potrà intervenire per fermarli. La Turchia è governata da una specie di «democrazia musulmana» e nonostante ciò il paese conosce una crescita economica da far impallidire l’Europa, senza perdere il suo dinamismo, la sua creatività e la sua inventiva. Qualcuno potrebbe sostenere che l’emergenza di una «democrazia cristiana» in Europa sarebbe anch’essa un assalto contro le libertà, mentre le destre estreme razziste, islamofobe e populiste insidiano il potere? Ovviamente no. Ma come riuscire a spiegarlo?

Islam, Israele e rivolte in territorio arabo.
Le Point del 3 febbraio e L’Express del 9 rispondono attraverso la loro copertina. Da un lato, una donna velata musulmana, con il titolo «Lo spettro islamico». Dall’altro, una giovane soldatessa israeliana in procinto di indossare il suo elmetto con il titolo «Israele di fronte al risveglio arabo».
La simbologia è chiara: da una parte l’islam retrogrado, dall’altra Israele, moderno e alleato dell’Occidente. Il paragone, non fortuito, ossessiona le menti di molti intellettuali dall’ideologia acrobatica. Secondo il loro avviso (e quello di alcuni «esperti», la maggior parte dei quali conoscono pochissimo la regione), le rivolte nel mondo arabo sfoceranno necessariamente nell’islamismo, cosa che metterebbe in pericolo Israele. Iran, Hamas, Hezbollah, Tunisia, Egitto, sono la stessa cosa. Se l’Olanda non è uguale alla Francia, perché l’Egitto deve assomigliare all’Iran e la Tunisia al Libano?

Alle prossime elezioni, in mancanza di reali programmi politici, qualche partito agiterà il drappo verde dell’islam. Ma sì: perché perdere tempo a sostenere ciò che accade in questo Mediterraneo che ci è così vicino e che, democratizzandosi, si avvicinerà ancor di più ai paesi occidentali per ricostruire in un vero mare nostrum, un insieme di partner democratici e non corrotti?

L’altra paura è che gli islamici al potere mettano Israele in pericolo. Ma si pensa davvero che da un giorno all’altro questi paesi cesseranno le loro relazioni con Israele? Che Israele è solo, fragile e senza difese nella regione? Che l’equilibrio geopolitico verrebbe sconvolto da un giorno all’altro da una democrazia che rimpiazza una tirannide? E che saranno sicuramente (inevitabile fatalismo) gli islamisti, come in Iran, a prendere il potere? Eccoci ancora una volta nelle maglie della rete dove si aggrovigliano islamismo, conflitto israelo-palestinese, eredità coloniale, rifiuto dell’islam e arroganza occidentale.

Le visite pagate dal principe arabo
Anche le visite a spese di questi principi corrotti, effettuate dal nostro Primo ministro e dal nostro ministro degli Affari esteri, ricordano altri tempi, quando ci si andava a servire «laggiù», in cambio del sostegno quantomeno «morale» di despoti locali o regionali poco raccomandabili. Lo stesso ambasciatore francese in Tunisia si è rivelato incapace di guardare con obiettività alla rivolta che si svolgeva sotto le sue finestre, accecato dalla sua visione delle cose: la stabilità (desiderata) del regime di Ben Ali. La stabilità e i dirigenti con i quali sappiamo parlare così bene, sono decisamente più importanti per la nostra élite politica della libertà dei popoli arabi, della quale non sanno che farsene.

A quando una rivoluzione della nostra mentalità per riuscire a vedere al di là del nostro naso e progredire? Sì, abbiamo proprio bisogno di uno «choc» per scuoterci profondamente e risvegliare le nostre società addormentate.

Esther Benbassa insegna Storia dell'Ebraismo moderno all'EPHE ed è Direttrice del «Centre Alberto-Benveniste d’études sépharades et d’histoire socioculturelle des Juifs». L'originale dell'articolo è qui: http://www.rue89.com/passage-benbassa/2011/02/11/revoltes-dans-le-monde-arabe-notre-arrogance-colonialiste-189970

[1] Il riferimento è alla teoria dello «scontro delle civiltà» di Huntington. Il testo gioca sul doppio senso di «choc» in francese («scontro» e «scossa»).

13 gennaio 2011

Sognare è urgente


La rivolta del popolo tunisino è arrivata ad un punto di non ritorno. Le manifestazioni sono quotidiane, in tutto il paese, come si può vedere in questo video a Kairouan, dove la piazza riesce a stento a contenere le persone. A Zaghouane, Mahdia, Monastir, il popolo è sceso in piazza a reclamare la fine della dittatura. Le manifestazioni hanno già raggiunto Djerba e i sobborghi di Tunisi. Il presidente Ben Ali, secondo alcune informazioni, avrebbe già "esfiltrato" le figlie e i rispettivi mariti a Montréal. Su Facebook e su Twitter, in questo momento sta girando la voce che lui stesso potrebbe lasciare il paese in serata.
Oscurata dai media tradizionali, la rivolta si riproduce, frammentata, nelle reti sociali (facebook, twitter, Youtube). La rivoluzione non passerà in TV, ma sarà filmata e messa su YouTube.
L'esercito, in qualche caso, si è schierato a fianco dei manifestanti, ma la polizia continua ad essere fedele al presidente e spara con proiettili veri sulla folla: i morti sono ormai più di cinquanta. Tra le vittime, un professore e ricercatore franco-tunisino, Hatem Bettahar, che insegnava all'Università di Compiègne. 

Di fronte ad una rivolta di tale dimensioni, il silenzio francese ed europeo è più che assordante. L'Europa -  governanti e intellettuali, politici e giornalisti/moralisti - si volta dall'altra parte, comprensibilmente imbarazzata del comportamento di uno dei suoi più brillanti cani da guardia contro «il pericolo islamista» e «l'invasione dei barbari» nel nostro ricco occidente. Pronta a difendere i diritti umani in Iran, in Venezuela e altrove (perfettamente in linea con la politica degli stati canaglia di George W. Bush che non sembra essere cambiata di un millimetro), la patria dell'illuminismo, la culla della civiltà dalle radici giudaico-cristiane, fa finta di non vedere che una cricca mafiosa regna da vent'anni sull'altra sponda del mediterraneo (qui un dossier sugli intrecci tra potere politico e potere economico), cricca il cui capo dà l'ordine di sparare impunemente sul proprio popolo.
«Al di là del saccheggio organizzato, della corruzione massiccia, dell’appropriazione mafiosa dei beni pubblici e della confisca di beni e proprietà private, il problema sono le scelte economiche orientate verso uno scatenato liberalismo capitalista, preoccupato quasi esclusivamente di soddisfare in modo servile la domanda europea (più dell’80% degli scambi commerciali della Tunisia sono con l’UE), fino a fare della Tunisia, sul piano turistico, una sorta di dépendance delle “case di riposo” europee, incomparabilmente più economiche e soleggiate.»
(Sidi-Bouzid – Tunisia: elogio di una rivolta già tradita o del diritto-dovere di resistere all'oppressione...e al tradimento, lungo ma interessantissimo testo di analisi e proposta politica e filosofica).
Il popolo tunisino, mentre continua a morire per strada, sta dando una lezione di civiltà, di democrazia, di dignità a tutti gli europei. Dagli interventi di studenti, giornalisti, membri della cosiddetta "società civile" pubblicati sul portale nawaat.org, emerge un'impressionante lucidità di analisi, una volontà insopprimibile di libertà, una capacità di organizzare la lotta e la protesta, una precisione sugli obiettivi da raggiungere.
«La Tunisia, la corruzione, le tangenti… abbiamo solo voglia di andarcene, a studiare in Francia, in Canada… Vogliamo abbandonare tutto. Siamo vigliacchi, e lo accettiamo. Lasciamo loro il paese. Andiamo in Francia, dimentichiamo un po’ la Tunisia. Torniamo per le vacanze. La Tunisia? Sono le spiaggie di Sousse e Hammamet, i locali notturni e i ristoranti. Questa è la tunisia, un gigante club med. E poi, Wikileaks rivela clamorosamente ciò che tutti mormoravano. E poi, un giovane si dà fuoco. E poi, 20 tunisini sono assassinati in un giorno. E per la prima volta, vediamo l’occasione di ribellarci, di vendicarci di questa famiglia reale che si è appropriata di tutto, di rovesciare l’ordine stabilito che ha accompagnato la nostra gioventù.Una gioventù educata, che non ne può più e che si appresta ad immolare tutti i simboli di questa antica Tunisia autocratica con una nuova rivoluzione, la rivoluzione del Gelsomino, quella vera.»
(Une jeunesse vécue sous l'ombre de Ben Ali)
Un popolo che è ancora capace di sognare, insomma, e di prendere in mano il proprio futuro:
«Siamo soli, isolati, in preda alla collera e all’inquietudine. Fronteggiamo un regime che si sta sbagliando di secolo e di paese.
Questa rivolta dei tunisini non può essere rivendicata da nessun partito politico, nessuna organizzazione, nessuna associazione. Nessuna figura dell’opposizione può rivendicarla o assumersene la paternità.
Questa rivolta viene dal popolo e al popolo appartiene. Questo popolo che alcuni immaginano arretrato sta dando una lezione alla sua classe politica e al mondo.
Le manipolazioni ideologiche non subentreranno ad una collera spontanea e popolare.
È compito dell’élite del nostro paese rispondere all’appello e immaginare l’avvenire. Noi dobbiamo costruire un nostro modello politico, economico, sociale e culturale. Noi dobbiamo mostrare al mondo che cos’è una democrazia araba.
È urgente sognare una Tunisia portatrice di speranza per tutti.
Due condizioni inderogabili per questo.
Bisogna riappropriarci del diritto alla parola, diritto al quale non avremmo mai dovuto rinunciare. Un diritto necessario perché scaturiscano le idee, fioriscano le intelligenze e si sposino tra loro per procreare il nostro futuro comune.
L’altra conditio sine qua non è la contrattualizzazione del rapporto tra i tunisini e le loro élites politiche: queste ultime devono essere al nostro servizio e non il contrario.

Perché i sacrifici non siano vani, è urgente sognare la Tunisia di domani.
Sogniamo.»