Poco tempo fa, ad un seminario all’Università di Pisa, un collega, prima del mio intervento, mi ha domandato: "Hai preparato l’End Out?". La prima cosa a cui ho pensato è stata: "madonna quanto sono ignorante!". A mente fredda, mi sono poi subito chiesto perché mai le care vecchie “fotocopie” (avevo capito alla fine, dai gesti, di cosa si trattasse) si dovessero chiamare oggi, in una università italiana - e per giunta in un dipartimento di filosofia - “Handout” (ho poi scoperto il termine “reale”, e qui si dovrebbe aprire una parentesi sui danni dei termini inglesi pronunciati a cazzo di cane). E non sono riuscito a trovare nessuna risposta valida.
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15 giugno 2010
Reti Sociali Vs. Social Network
Les réseaux sociaux, perché i francesi "tradurrebbero pure loro madre", diceva in un post Suibhne. Per carità, verissimo. Ma continuando a ruminare sul comparatismo culturale, mi è venuto in mente che pure gli spagnoli (quelli del perrito caliente, per intenderci) utilizzano comunemente il termine Redes Sociales. E mi risulta che anche i tedeschi abbiano un Soziales Netzwerk. Al mondo, dunque (lasciando perdere lingue di cui non ho alcuna cognizione), 400 milioni di ispanofoni + 200 milioni scarsi di francofoni + 100 milioni e più di germanofoni, hanno tradotto il famigerato termine “social network”. Ma non noi in Italia. Vista da questa prospettiva, la “mania traduttiva” dei francesi (e degli spagnoli) si riflette in uno “snobismo del quartierino” del nostro Bel Paese, rovescio della medaglia di uno spaventoso provincialismo. A cosa serve, infatti, l'utilizzo a tutti i costi di un termine inglese (pronunciato all’italiana, poi) se non ad alimentare una vanagloria di “saperne più degli altri” nel campo più innovativo del momento? Snobismo condito da una punta di elitarismo: perché mai dovrei utilizzare un termine inglese per spiegare a mia mamma che cosa sono le “reti sociali”?
Poco tempo fa, ad un seminario all’Università di Pisa, un collega, prima del mio intervento, mi ha domandato: "Hai preparato l’End Out?". La prima cosa a cui ho pensato è stata: "madonna quanto sono ignorante!". A mente fredda, mi sono poi subito chiesto perché mai le care vecchie “fotocopie” (avevo capito alla fine, dai gesti, di cosa si trattasse) si dovessero chiamare oggi, in una università italiana - e per giunta in un dipartimento di filosofia - “Handout” (ho poi scoperto il termine “reale”, e qui si dovrebbe aprire una parentesi sui danni dei termini inglesi pronunciati a cazzo di cane). E non sono riuscito a trovare nessuna risposta valida.
Poco tempo fa, ad un seminario all’Università di Pisa, un collega, prima del mio intervento, mi ha domandato: "Hai preparato l’End Out?". La prima cosa a cui ho pensato è stata: "madonna quanto sono ignorante!". A mente fredda, mi sono poi subito chiesto perché mai le care vecchie “fotocopie” (avevo capito alla fine, dai gesti, di cosa si trattasse) si dovessero chiamare oggi, in una università italiana - e per giunta in un dipartimento di filosofia - “Handout” (ho poi scoperto il termine “reale”, e qui si dovrebbe aprire una parentesi sui danni dei termini inglesi pronunciati a cazzo di cane). E non sono riuscito a trovare nessuna risposta valida.
Sarà senilità, ma sono sempre più convinto che non ci sia davvero nessun guadagno nell’abdicare totalmente e volontariamente alla ricchezza della propria lingua.
5 maggio 2010
Ricorrenze
Il posto dove fu colpito a morte è sul lungarno Gambacorti di Pisa, tra la via Toselli e la via Mazzini. Si lascia sulla sinistra, venendo dal ponte di Mezzo, il palazzo del Comune e si cammina lungo una ininterrotta serie di piccole botteghe che forse esistono da secoli e hanno mutato soltanto il genere dei loro minuti commerci. Una mescita di vino al numero 10, all’angolo di via delle Belle donne; un tappezziere al numero 13; un aggiustatore di macchine fotografiche al 14; la calzoleria “La rapida” al 16; l’agenzia Sbrana, compravendita e affitti, al 18; il circolo Enal al 19.
Alle spalle dell’isolato, via della Nunziatina, nell’intricato quartiere del sottoproletariato rosso. Di là dall’Arno, sotto i palazzi aristocratici e inaccessibili, lo scalo del carbone con la lapide che ricorda l’approdo della barca di Garibaldi ferito sull’Aspromonte.
Non lontano dal lungarno Gambacorti, tante volte citato nei rapporti dei commissari di pubblica sicurezza, nei verbali dei sostituti procuratori della Repubblica, nelle sentenze dei giudici istruttori, nelle cronache dei giornali e nelle relazioni dei periti medico-legali, splendono i gioielli dell’arte e della religione, Santa Maria della Spina, San Paolo a Ripa d’Arno e, a pochi passi, la chiesa di Santa Cristina dove, il 1° aprile 1375, santa Caterina da Siena ricevette le Sacre Stimmate, “cinque lucidissimi raggi sanguigni, usciti dal Santissimo crocifisso sull’altare e andati a ferire le mani di Caterina, i piedi, il suo castissimo e virgineo petto”.
Ma la sera del 5 maggio 1972, né la patrona d’Italia, né la presenza antica di bellezza e di arte, né i segni della storia e della cultura servirono a salvare dalla furia della polizia, tra la bottega del vinaio e quella del tappezziere, un giovane non alto, ricciuto, gli occhiali da miope, il viso serio e sofferto, vestito con una giacca marrone, un paio di pantaloni di lana nera, una camicia con le maniche lunghe dai disegni fantasia color giallo arancione. Franco Serantini, di vent’anni, sardo, anarchico, figlio di nessuno nella vita come nella morte.
(Corrado Stajano, Il Sovversivo)
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9 febbraio 2010
13 luglio 2008
Mondiali Rebeldi: Curva Nord campione 2008
Ospitiamo volentieri la cronaca della finale del Mondiale Rebelde 2008 scritta a 6 mani e svariate birre dalle nostre inviate a Pisa, Lotte, Simo e Rosita.
Pisa, Cinque Luglio 2008, ore 21:11: finale del Mondiale Rebelde, Brasile - Curva Nord.
Siamo alla fine dell'edizione 2008 del Mondiale Rebelde e dopo mille colpi di scena arrivano in finale la Seleçao Brasileira e gli agguerriti Supporter del Pisa.
L'entrata in campo delle squadre si apre con uno smarrimento collettivo dovuto ai colori delle divise: i giovani pisani indossano una maglia giallo-verde e i brasiliani bianco-rossa... dopo qualche scambio di battute, si svela l’arcano: la maglia degli ultras della Nord è quella giamaicana (in onore alla lussureggiante vegetazione isolana) e la maglia brasiliana è stata invece offerta dallo sponsor Lavanderia il delfino, che probabilmente porta questi colori nella sua insegna.
Vengono sistemati gli striscioni a bordo campo (bandiera del Brasile e striscione della Curva Nord) e l’attenzione collettiva è immediatamente dirottata sugli spalti, dove nel frattempo si è sistemata la tifoseria carioca che per numero di decibel urlati, cantati, ruttati, surclassa decisamente quella della squadra avversaria: quale smacco per la squadra più ultras di Pisa? Ma tant’è.
Il tifo brasiliano parte in maniera straripante: anche se sprovvisti dei consueti tamburi, hanno ugole potentissime. Su tutti, si fa notare un brasiliano a torso nudo con buzza prorompente, bandiera brasiliana legata a mo’ di mantello e birra d’ordinanza. Ma, ahinoi, il “colore” del personaggio dura pochi istanti: il suddetto inizia infatti a lanciare improperi non molto sportivi alla squadra avversaria, all’arbitro ed infine a tutti indiscriminatamente, lanciandosi sulla rete (gli insulti in brasiliano vengono compresi benissimo da tutti: un po’ perché gli insulti si capiscono sempre, un po’ per la presenza di filo-lusitani sugli spalti).
In campo, i pisani schierano i gemelli Alessio e Alessandro – uguali in tutto tranne che per i calzini – degni di una puntata di Holly e Benji. L'inizio dell'incontro vede una Curva molto aggressiva ed un Brasile non molto organizzato, tanto che dopo pochi minuti, la curva va in vantaggio e raddoppia dopo altrettanti.
Intanto sale la tensione, anche per l’atteggiamento lievemente falloso di entrambe le squadre.
Quasi gol per il Brasile: gli spalti tremano come se volessero venire giù.
Nel secondo tempo, il nostro incontenibile brasiliano fa rifornimento di birra e si ripresenta sulle gradinate con trombetta da stadio assordante, diventando sempre più aggressivo: a un certo punto si teme la rissa, ma la voglia di divertirsi e lo spirito del mondialino fanno sì che la provocazione, cercata esclusivamente dal nostro simpatico cerveja addicted, cada nel vuoto. Tutto il resto della tifoseria più festosa del mondo, infatti, ha modo di farci ricordare la sua simpatia cantando allegramente e scatenandosi in un balletto superkitsch irresistibile. In campo, la partita è al cardiopalma: la porta dei pisani, fino a quel momento inviolata anche per le alte doti tecniche del portiere della Curva, subisce gol dall’armata fantasiosa sudamericana: siamo sul 2 a 1.
A risolvere le sorti dell'incontro è l'impietosa regola dei “cinque falli” – che concede un tiro libero per ogni fallo commesso dall’altra squadra dopo i cinque consentiti – grazie alla quale i brasiliani conquistano un 2 a 2 che fa quasi crollare gli spalti.
Ma chi di fallo ferisce di fallo perisce: negli ultimi minuti arriva il 3 a 2 per la Curva che porta a casa il titolo.
Non ci resta che chiudere citando la puntuale ironia di Sergio Bontempelli : "po' esse’ un caso che in un torneo a cui partecipa tutto il mondo alla fine vinca Pisa?"
Coppa del Mondiale Rebelde 2008 alla Curva Nord.
Qui Pisa, a voi Parigi.
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4 luglio 2008
Maratona Parigina
L'associazione Imago di Pisa ha organizzato Sabato 10 maggio una maratona fotografica, un po' caccia al tesoro: si danno 4 temi e i partecipanti hanno un'ora per ogni tema per setacciare la città e trovare lo scatto che più li rappresenta.
E per chi non sta a Pisa? Un gruppo di 6 temerari fotoamatori (ridottosi poi a 3, visti i numerosi forfait per l'afa prematura) ha potuto eccezionalmente partecipare a distanza a questo evento, comunicando via sms con l'astronave madre-pendente, grazie a Francesca Bonsignori (quinta colonna nella Ville lumière) e alla sua amica Alessandra Bigini: ne è venuta fuori una parallela e contemporanea maratona parigina.
La mostra della maratona sarà inaugurata domani, 5 luglio, a Pisa, in Place LaPoire. Per tutti quelli che non potranno assistervi, qui sotto troverete il link alle foto mie e di Franz che parteciperanno alla mostra:


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arcomanno
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26 giugno 2008
Da Genova a Livorno, passando per Buenos Aires
Chiunque abbia passato più di due giorni in una qualsiasi città costiera del Tirreno settentrionale, tra Genova e Livorno, conosce senza dubbio quella specie di focaccia fatta di farina di ceci e cotta al forno che prende il nome di produzione, di farinata in Liguria, torta di ceci o più rapidamente cecìna, in Toscana.
L'altra domenica eravamo ad una festa di compleanno di un'amica franco-argentina e ad un certo punto sul buffet, tra quiches, tarama e tzatziki, spunta fuori un piatto con sopra qualcosa che rassomigliava molto ad una cecina: di fresco ritorno da un soggiorno Lucco-Pisano (nella città di Santa Zita, peraltro, ho mangiato una delle peggiori pizze della mia vita, ma lasciamo perdere), l'assaggio subito ed esclamo stupito e felice: "ma è cecìna! (pure piuttosto buona)". Si avvicina un altro amico franco-argentino che mi spiega: "è una specialità argentina, tipica di Buenos Aires: si fa con la farina di ceci, l'acqua, l'olio di oliva e si cuoce al forno".
Mmhh... specialità argentina... Tipica di Buenos Aires... No, non mi freghi. E allora dico "Ma sapete, è una cosa che si mangia anche in Italia, più precisamente lungo tutta la costa Tirrenica, a nord di Livorno". Mi guardano un po' così, come se avessi detto una banalità: capirai... gli italiani a Baires... hai scoperto l'acqua calda...
A questo punto si tratta solo di scoprire chi è stato il primo ad importarla. Non so perché, ma tenderei a priori ad escludere i toscani (ce lo vedete un Pisano o, peggio, un Livornese emigrato a Buenos Aires che apre una pizzeria? Ma ti levi di 'ulo?). Quando poi mi dicono che la specialità si chiama Fainà, a quel punto è sicuro: liguri furono i primi importatori della torta di ceci in Argentina.
A questo punto si tratta solo di scoprire chi è stato il primo ad importarla. Non so perché, ma tenderei a priori ad escludere i toscani (ce lo vedete un Pisano o, peggio, un Livornese emigrato a Buenos Aires che apre una pizzeria? Ma ti levi di 'ulo?). Quando poi mi dicono che la specialità si chiama Fainà, a quel punto è sicuro: liguri furono i primi importatori della torta di ceci in Argentina.
E facendo una breve ricerca, si definiscono meglio i contorni della storia: fine ottocento, il quartiere della Boca, i portuali genovesi, (in buona parte anticlericali, anarchici, socialisti: chissà perché esportiamo sempre i meglio pezzi, noi italiani), le tradizioni culinarie indissociabili da qualsiasi emigrazione: "Moscato-pizza-fainà".
Sembra che oggi la migliore pizzeria di Buenos Aires sia Guerrin: lì la fainà si mangia da sola
oppure nella sua versione hard-core, sopra un quarto di pizza.
Vedendo queste foto mi ritorna alla mente quando andavo, mille anni fa, dal Montino a Pisa, orgoglioso produttore di pizze fritte untissime (ma la cecina era molto buona) e ogni tanto arrivava un bimbetto più largo che alto, paciocconissimo, ordinava un quarto di pizza con cecina e si infilava presto presto in bocca quel bel mattoncino farcito colante olio...
Minchia, c'ho fame...
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arcomanno
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6 giugno 2008
Europei? Macché: Mondiali Rebeldi
2 giugno - 5 luglio 2008
Dopolavoro Ferroviario
Pisa
Dopolavoro Ferroviario
Pisa
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arcomanno
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