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9 aprile 2013

Tre santi bastano e avanzano

- Perché io ne ho solo tre: saint Yves per la giustizia (e tu sai, se chiedi qualcosa a saint Yves e non sei perfettamente onesto e giusto lui ti fa morire all’istante, non si scherza mica, bisogna stare molto attenti), saint Christophe quando mi dimentico qualcosa (e infatti l’altra volta avevo perso il portafogli, ho pregato saint Christophe e l’ho ritrovato subito) e saint Michel. Beh, per quest’ultimo mi sembra chiaro il motivo, non c’è bisogno di aggiungere altro.
I cristiani dicono di pregare Gesù Cristo, ma te l’immagini il poverino: dev’essere davvero impegnato! E quando mai riuscirà a rispondere a tutte le richieste! No, via, Gesù non è possibile.
Io ho solo questi tre: saint Yves, saint Christophe e saint Michel. Degli altri, non voglio saperne proprio niente.
(Sull'autobus 26, dalle parti di Gambetta, 20 arrondissement)

5 dicembre 2012

Col naso negli smartphones altrui

L’elevato numero di persone presenti nelle carrozze della metropolitana durante l’ora di punta mi costringe spesso a buttare un occhio agli smartphones della gente. Sì, sono una persona molto curiosa, ma vi giuro che alcune volte non si può proprio fare a meno di spiare in questi aggeggi sempre presenti, sempre accesi, sempre più grandi e luminosi. L’altra sera, per esempio, durante la rentrée quotidiana (che inizia verso le 17.30 e dura fino alle 19 inoltrate) stavo pressato in piedi e sovrastavo una tizia con l’iPhone in bella vista. Ascoltava un pezzo di Gotye mentre chattava con qualcuno su Facebook. Poi ha aperto adopteunmec.com, un sito di incontri on-line nel quale sono le donne a scegliere e gli uomini vengono presentati su uno scaffale del supermercato, con tanto di offerte speciali, saldi, scheda prodotto, metti nel carrello e via mercificando. Un mec di nome Ferris (!) le ha inviato uno charme (una sorta di «poke che affascina», che è tutto quello a cui si può limitare l’uomo-merce sullo scaffale). Lei risponde a Ferris, evidentemente colpita dal suo charme. Per leggere la risposta avrei dovuto avvicinarmi troppo, dunque ho lasciato perdere. 

L’afflusso di gente alla stazione successiva mi spinge così indietro che finisco praticamente in braccio a un signore anziano ma vestito da giovane: jeans, scarpe similskate, magliettina colorata, borsa eastpak. L’anziano signore, che a un esame più approfondito mi ricorda in maniera inquietante Roberto Formigoni, tira fuori il suo smartphone, una roba con uno schermo enorme, e inizia a scaricare la posta da gmail. Un messaggio contiene svariate foto in allegato che il signore comincia – lentamente – a scaricare e poi apre. Nella prima, una ragazza bruna vestita in jeans e lacoste rossa sorride seduta su un muretto. Lo sfondo sembra brullo, la luce è intensa; il rapporto tra cemento, tegole e asfalto insieme ai tratti vagamente mediterranei della ragazza mi fa dire: «Beirut», ma ovviamente potrebbe essere un luogo qualsiasi tra Battipaglia e Tripoli. E lì penso subito: che tenera, la nipotina le ha inviato le foto dal Paese Lontano. Il sosia più vecchio del Presidente della Regione Lombardia non ci vede bene, nonostante lo schermo esagerato, allora prova a zoomare ma ha grosse difficoltà con i gesti di pinch e spread, ovverosia l’avvicinamento o allontanamento contemporaneo di pollice e indice sullo schermo. Per zoomare parte da troppo lontano e arriva dunque troppo presto sui bordi dello schermo. 

La foto successiva mostra la stessa ragazza, questa volta in piedi davanti al muretto, che sorride ancora in direzione dell’obiettivo. Di nuovo, il nonnetto prova a zoomare con scarsi risultati. La foto seguente è scattata più da vicino, per sua fortuna, dunque la ragazza si vede meglio: è molto bella e sorride ancora, con una mano fra i capelli. Ma l’altra foto è di nuovo presa da lontano: stavolta la nipotina ha una camicia a righe azzurrine e sta in posa davanti all’obiettivo, leggermente piegata in avanti, con le mani sulle ginocchia. Il nonnino riprova inutilmente a zoomare e io, davanti a questa straziante attesa frustrata, sono davvero a un passo dall’accorrere in suo aiuto e spiegargli come si fa. Ma una vocina improvvisa mi dice: «fatti i cazzi tuoi». Nella foto numero 5, la nipotina è seduta su una grande poltrona in vimini e indossa la stessa camicia a righe azzurrine della foto precedente, ma stavolta i due ultimi bottoni sono aperti. Le gambe sono rannicchiate sulla poltrona; jeans, calze e scarpe sono sparite. Lei sorride ancora verso l’obiettivo. Il nonno dai capelli bianchi prova inutilmente, in maniera sempre più convulsa, a zoomare. Io distolgo lo sguardo imbarazzato. E’ la mia fermata: scendo dalla carrozza, ringraziando la mia vocina interiore.

22 agosto 2012

Un pomeriggio nel salotto di Natalia Aspesi, chiacchierando intorno all’ultimo Batman di Christopher Nolan


Natalia mi accoglie in uno spazioso salotto, con il suo solito garbo e savoir faire di ospite premurosa ma non insistente. I cedri del Libano che cingono la sua casa restituiscono all’ambiente un fresco naturale e per niente insulso, perfetto baluardo contro la settima e ultima ondata di caldo luciferino che assedia la città. Prendo posto su un comodo canapé rivestito di morbido chiffon e ricoperto di vecchi merletti. Natalia fa portare il tè in un elegante servizio di Richard Ginori profilato in oro, e ci mettiamo subito a discorrere amabilmente di cinematografia.

Il tema centrale è ovviamente The Dark Knight Rise, ultimo capitolo della trilogia di Batman firmata Christopher Nolan che esce in questi giorni nelle sale italiane ma che, sia io che Natalia, abbiamo avuto modo di vedere in anteprima. Sul tavolo basso in ciliegio e vetro di murano giace una copia del quotidiano La Repubblica del 20 agosto 2012, aperta a pagina 19.

– Ho apprezzato molto il suo articolo, cara Natalia – dico prendendo in mano il giornale con una certa nonchalance – e concordo totalmente con i grandi meriti di Nolan, tra i quali c’è «quello di aver creato immagini soprattutto notturne di minaccioso incanto, senza far uso dell’insulso 3D». Certo, dico io, la maggior parte delle scene (e certamente tutte quelle importanti) di questo film sono girate di giorno ma perché sottilizzare? Il minaccioso incanto resta poi pur sempre tale.

– Il latte è troppo freddo?
– No, il latte va benissimo, grazie. Ma parliamo della durata. Un film «lunghissimo e labirintico» (non avrei potuto trovare aggettivi migliori), che dunque «andrebbe visto minimo due o anche tre volte, (e forse per questo nel solo primo fine settimana in Usa ha incassato 164 milioni di dollari) se ci si intestardisce, nel frenetico accavallarsi di colpi di scena, a voler capire tutto quello che succede». Devo confessare che anch’io durante la visione ho avuto dei momenti di improvvisi vuoti di memoria, e mi giravo di qua e di là nell’impressione di essere in un luogo estraneo. Una volta ho persino urlato: «ma chi ha spento la luce?». E poi non avevo pensato alla possibilità delle doppie e triple visioni in USA come causa dell’incasso mirabolante: è un’intuizione geniale, in effetti. Ma perché intestardirsi? Che siamo venuti a fare al cinema, mi domando? Siamo venuti a intestardirci a voler capire? Il punto, a me pare è il «frenetico accavallarsi». Possiamo dire che il film di Nolan è un film di «frenetico accavallarsi»? 

– Ho delle madeleines appena sfornate: ne gradirebbe una?
– Non avrei l’ardire di accettare ma non posso sottrarmi a tale gentilezza: volentieri, grazie! Dunque, dicevamo, l’«accavallarsi» è la cifra stilistica di questo film. Ed è proprio per questo che è inutile un razionale intestardirsi. Basta allora «lasciarsi andare al cinegodimento di tutti gli spaventi e intrighi e volonterosi attori: e filosofie e lunghissime discussioni sul bene e sul male; più inseguimenti e accavallamenti di macchine, e scontri polizia-criminali e criminali-criminali, e colli rotti e ossa spezzate e ammazzamenti a non finire e luoghi di tortura e ricordi crudeli e palazzi che saltano in aria e fogne invase dall’acqua».
Mimo un leggero applauso con tre dita sul palmo della mano, ma aggiungo subito: – Tuttavia, Natalia, quel «cinegodimento», secondo la mia sempre umile opinione, trovo sia neologismo un po’ volgare. Ecco, l’ho detto, ma non me ne voglia, la prego.

Ma veniamo al côté rosa del film: qui devo dire che è, come al solito, insuperabile. A parte «i baffoni a spazzola» di Wayne che mostra di non apprezzare (quando invece, secondo me, quell’aria da baffessa un po’ Freddie Mercury non gli stava affatto male), ho fatto salti di gioia nel leggere il dettaglio della «nera tuta con orecchie da pipistrello, che gli fa pettorali enormi». E poi, la voce di Wayne, che «mormora dolcemente solo concetti tombali». Ma l’acme è quella strizzatina d’occhio appena accennata, quel leggero colpo di fioretto sulla tuta senza la zip che chiude il paragrafo successivo. Mi permetta di citarlo per intero: «Ci si abbandona sereni al fracasso dello schermo però anche chiedendosi, in un momento di lucidità, perché non tanto Batman, che con quella tuta di gomma senza una sola zip avrebbe certo non poche difficoltà, ma l’elegante languido, sempre sofferente Bruce Wayne, lasci del tutto intonse le due belle signore dalla voce sensuale che gli soffiano suadenti nell’orecchio, la Cotillard dallo sguardo assassino e la Hathaway dalla bocca color fiamma».

(Alla fine della citazione non riesco a trattenere una risatina che cerco di mascherare come posso con il tovagliolo azzurro di fiandra finemente ricamato a punto croce. Ma all’improvviso ho come un vuoto di memoria. Panico. Mi balena davanti una scena di Bale e la Cotillard dallo sguardo assassino che trombano ignudi su un tappeto davanti al caminetto acceso, in una scenografia da volgare softcore anni ’70. L’ho sognata, quella scena, oppure era vera e dunque il momento di lucidità di Natalia che si sveglia di soprassalto sarà avvenuto dopo, lasciando la nostra critica digiuna di scene piccanti e abbandonata al fracasso dello schermo? Il dubbio mi rimane tutt’oggi poiché non ebbi il coraggio allora di approfondire tali scabrose questioni).

– Il dettaglio piccante è però pur sempre un dettaglio; si ritorna subito infatti alla critica seria, profonda (oserei quasi definirla militante, se l’aggettivo non fosse ormai abusato). Batman e la politica. E qui però ho un dubbio: pur accettando la smentita di Nolan sul legame tra il film e l’attualità, la sua affermazione «al massimo si può pensare che se fosse americano, Nolan voterebbe Romney» vuole forse nascondere un velato parallelo tra il regista inglese e Clint Eastwood?

Natalia chiede il permesso di alzarsi a chiudere ancora un po’ le tende di macramé, a schermare quei pochi raggi di sole che sono riusciti impavidi a oltrepassare le ultime barriere dei cedri.
Prendo il suo gesto come una risposta affermativa con qualche distinguo, e continuo nella nostra amabile conversazione.
– Certo le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, ed è pur vero che «il pensiero, lungo il lungo film, si ottunde, si rinuncia a dare un senso alle trame dei cattivi e alle crudeltà dei cattivissimi». In ogni caso, la chiusura del pezzo è magistrale. Non ricordo più qual è il nome di quella figura retorica che consiste a dividere un elenco in classi contrapposte, ma per semplicità lo chiamerò il gioco del non è un film per / è invece un film per. Mi lasci dire, cara Natalia, che lei eccelle in questo gioco. Ma vediamo nel dettaglio. Questo non è un film per «bambini e adolescenti». Non è nemmeno un film per «adulti desiderosi di divertirsi, data la sua insistenza sulla fine e la morte». Per chi è, dunque, questo film? «forse per filosofi, studiosi comportamentali, psichiatri e giallisti, oltre a scienziati delle comics e superstudiosi che seguono Batman sin dal film di Tim Burton dell’89».
Qui devo confessarle che ho avuto davvero un’illuminazione. Non che io possa essere considerato un filosofo (certo non ardirei mai a tale titolo vuoto e insulso, un po’ come il 3D) ma ho forse capito perché io e i miei amici siamo usciti estasiati dalla visione del film. Neanche a farlo apposta, infatti, ci ero andato con Gertrude Gomasio, dottoranda in studi comportamentali, Jeanne Allegretti, all’ultimo anno di specializzazione in psichiatria, Sauro Sandroni, noto giallista della Valdicecina e last but not least Jean-Luc Del Carpio, il più grande scienziato delle comics di Parigi e provincia, autore del maggior blog sull’argomento: Oggi le comics (oggilecomics.wordpress.com).

Ringrazio infine la Aspesi per le sue recensioni sempre ficcanti e pregne di senso e significato, come pregno è il voto finale: 4 su 6, un film «da vedere», dunque, che si posiziona tra il «si può vedere» e il «da non mancare».  

Natalia, sempre gentilissima, prima di congedarmi mi offre un bicchierino di rosolio che io gentilmente rifiuto vista l’ora tarda. Prendo la mia paglietta ed esco tra i cedri profumati, con l’impressione di aver vissuto un grande momento di critica cinematografica.

8 dicembre 2011

Intercettazioni

- Comunque io uso una pistola. Una 45. È un calibro abbastanza pesante, ma mi dà molta fiducia. Cosa? No, no, no, no: assolutamente. Il rinculo è minimo, ti dico, anche perché la canna è piuttosto lunga...

(al telefono per strada, nella banlieu chic di Boulogne, 10 ottobre 2011)

17 ottobre 2011

17 ottobre 1961

La folla defluì compatta verso il Rex, dove avvenne l'urto. I manganelli si abbatterono sulle teste nude, mal protette da braccia e mani. Un poliziotto prese una donna a schiaffi e calci, gettandola per terra. Un altro colpiva con tutte le sue forze l’addome di un ragazzo con il suo bastone d’ordinanza, fino a rompere il legno in due. Continuò a colpire servendosi del troncone più sbreccato. La sua vittima tendeva le mani per proteggersi, cercando di afferrare il manico di legno, ma ormai le sue dita spezzate non rispondevano più agli ordini. Una serie di detonazioni si udirono davanti alla piscina Neptune, dove stazionava un furgoncino. Dall’interno, tre agenti miravano con cura in direzione dei fuggitivi, colpendo ogni bersaglio. Un Ariane rossa e crema parcheggiata a meno di venti metri, dietro la quale dei musulmani tentavano di ripararsi, era crivellata di colpi. La gente correva urlando in tutte le direzioni. In preda al panico, inciampavano nei corpi caduti davanti alle verande dei caffè, in mezzo ai tavolini rovesciati, tra i bicchieri rotti, i vestiti coperti di sangue.
(Didier Daeninckx, Meurtres pour mémoire, Gallimard, p. 31

Il 17 ottobre 1961, il Fronte di Liberazione Nazionale algerino indice a Parigi una manifestazione per protestare contro il coprifuoco imposto ai nordafricani. La manifestazione pacifica viene repressa brutalmente dai reparti antisommossa della polizia e della gendarmeria che aprono il fuoco davanti ai manifestanti inermi, lasciando sul terreno decine di morti. Le forze dell’ordine arrestano circa 10.000 persone, deportandole in autobus requisiti alla RATP al Palais des Sports a Porte de Versailles e allo Stadio De Coubertin, nel XVI arrondissement. I due stadi saranno per tre giorni teatro di una macelleria messicana. Il prefetto di polizia di Parigi di allora aveva preparato personalmente i suoi uomini, assolvendoli in anticipo per gli abusi che avrebbero commesso. Il suo nome era Maurice Papon, lo stesso che nel 1942, a Bordeaux, firmava come segretario generale della prefettura della Gironda le autorizzazioni per la partenza dei treni degli ebrei verso Auschwitz.

Un collettivo di giovani registi ha realizzato un interessante e ricco webdocumentario sul soggetto, con la partecipazione - tra gli altri - di Jean Pierre Darroussin, Ariane Ascaride e Simon Abkarian (il Tony Le Dingue che abbiamo molto amato in Les Beaux Mecs).

12 ottobre 2011

Jean Fabry à Paris

Prima o poi sarebbe dovuto accadere. Lo spirito di Giovanni Fabbri, in arte Jean Fabry, si è posato infine sulla Ville Lumière. Quale meta più giusta per l'anima del misterioso chansonnier che divenne anni or sono la musa dei Jean Fabry?
L'inetichettabile band di Russi (RA) – che per i più attenti dei nostri 25 lettori non ha più bisogno di presentazioni – si è esibita a Parigi per ben tre giorni di seguito.
Il venerdì, nel quadro intimista del Bistrot littéraire des Cascades, nel cuore del 20ème arrondissement, i nostri hanno deliziato lo stranito pubblico con un'esibizione che aveva il sapore di un concerto a sorpresa (un surprise gig, come si dice in gergo). Tra applausi sentiti e i fischi di un albionico ubriacone, i Jean Fabry in formazione acustica volante hanno egregiamente affrontato il loro debutto parigino con un un apéro-concert. Da Gilbert Bécaud ai pappi dei pioppi (nella foto è immortalato il momento botanique del concerto), chiudendo addirittura con Stringi le viti di tanto in tanto.
Sabato sera, alla Festa del libro e delle culture italiane (Espace des Blanc Manteaux, in pieno Marais), è stata la volta della presentazione del CD dei Capra&Cavoli Ambarabàcidicocò, pregevole manufatto artistico-musicale che ha ricevuto l'ambito premio Soligatto. Dai Capra&Cavoli sono poi nati i Jean Fabry, ma questa trasformazione da Jekyll a Hyde non è che si sia notata molto, a riprova del fatto che la vena  stralunata/demenziale degli uni non è poi così distante dalle filastrocche degli altri. L'annunciata metamorfosi ha però tratto in inganno qualcuno: un gruppo di amici è arrivato verso la fine dicendo: ma come? Noi siamo venuti ora per i Jean Fabry! No, guarda, veramente sono lo stesso gruppo e hanno quasi finito...
In ogni caso siamo riusciti a trascinarli in bis e tris vari tra il francese (Le poète, Jean Fabry), l'italiano (Rotoballe, Cento, Punk Mentale) e il romagnolo (E zir de clomb).

Domenica mattina, i Capra&Cavoli con Gianni Zauli e Laurence Barthomeuf (curatori del libro) hanno animato una simpatica sessione con i bambini veri. Tra le filastrocche tradizionali (Pimpirulìn, Uno due tre, un'incredibile versione mancuniana di Sotto il Ponte di Baracca) e originali (Ti dico una cosa, l'inedito Tritone, l'ormai tormentone Il Camaleonte che ha riscosso gran successo), i bimbi italo-francesi si sono divertiti un sacco: gli occhialini di pappi, i tubofoni di Marlo e la faccia di Antonio hanno fatto il resto.
Nonostante conti molto il fattore biografico (Antonio mi ha confessato: «facciamo filastrocche perché abbiamo una bambina di sei anni; quando ne avrà sedici ci metteremo forse a fare disco-music»), credo che il ritorno all'infanzia sia un buon antidoto alla perdita di senso causata dall'attuale eccesso di informazioni.
Così non è un caso che anche l'ultimo – geniale – disco di Philippe Katerine abbondi in filastrocche strampalate, lallazioni, ecolalie.

Sono stati tre giorni intensi. Piegando due leggii e avvolgendo il cavo della pedaliera Korg di Antonio, mi sono anche guadagnato il titolo di roadie dei Jean Fabry: roba che non tutti possono vantare nel proprio curriculum. Ma credo che rimarrò nella loro memoria più per la tarama, l'hummus, il caviar d'aubergine, i felafel e il pastrami di Marianne.
E il cerchio si è chiuso, come un zir de clomb, comme un tour de pigeon.

29 settembre 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino (NB: il film, non la canzone dei Talking Heads): la mia recensione!

- Sono andato a vedere This must be the place di Sorrentino.
- Ah, e com'era?
- Ho fatto un post-recensione: non l'hai letto?
- Mah, no. Non l'ho visto proprio. Come l'hai intitolato?
- This must be the place o della vertigine autoriale. Ma non ha avuto un gran successo, in effetti.
- Ah, allora è per quello. Il titolo.
- Eh?
- Ma sì: la gente ha letto This must be the place e ha pensato che fosse un post sulla canzone.
- Ma no, era abbastanza chiaro. Parlavo di dolly, ho messo pure il video di René Ferretti, in Boris, sai la scena del dolly, quando fa: «drogatelli, drogatelli, drogatelli...».
- No, no: haivolutovedereparigi + This must be the place = Talking Heads. E' apodittico.
- Cioè, vuoi dire che nel mio blog non si parla di cinema?
- Ma no: però ne avrai parlato 3 volte. Di musica molto di più.
- Mah, forse hai ragione. E la recensione non era una recensione vera e propria, visto che si rivolgeva soprattutto a chi il film l'aveva già visto. Però proprio tu parli, sui titoli dei post e le recensioni...
- Perché?
- Ti devo ricordare il dialogo dell'altro giorno al telefono?
- ?
- Allora te lo ricordo. Ti ho chiamato e ti ho detto: Pronto, ciao, come va?
- Bene. Ah, lo sai? Sono andato a vedere Habemus Papam di Nanni Moretti.
- Ma scusa, non c'eri già andato?
- No.
- Ma se l'hai recensito sul tuo blog, qualche giorno fa!
- Ma no. Non era mica una vera recensione!
- Eh?
- Ma figurati se faccio una recensione di Habemus Papam. E poi, ti immagini che faccio un post e lo intitolo: «Habemus papam due punti la mia recensione punto esclamativo» (risate).
- Ah beh, in effetti mi pareva un po' strano anche a me. 
- Eh. Ma l'hai letto il mio post?
- Certo che no. Sai, pensando fosse una «vera» recensione, mi sono astenuto. Visto che non ci sono ancora andato. Sai, gli spoiler...
- Beh, certo, ma lo puoi leggere: non c'è nessuno spoiler.
- Ma dunque, se non l'avevi visto, che hai recensito?
- L'ho sognato.
- Cosa?
- Ho sognato il film. E l'ho recensito. Il sogno, non il film. Usando qualche scena che si vede nei trailer. Puoi leggerlo, non c'è nessuno spoiler.
- Ah. Però non credo che l'abbia capito nessuno che non era una vera recensione: i commenti al post mi parevano seri. 
- Eh infatti. Mi sa che non l'hanno capito.
- Sarà che non sappiamo fare i titoli dei post. Oppure siamo troppo avanti... ma insomma, alla fine com'era 'sto film?
- Beh, dai: era meglio il sogno.

26 agosto 2011

Fiat 124 Sport Spider



Rue des Pyrenées, Paris 20e 

...Piccola nota personale per questa superba "bagnole". La 124 Sport (non nella versione Spider fotografata qui ma in quella Coupé, ugualmente rossa) fu la mia «prima macchina», nel senso che era la macchina di mio padre quando io ero piccolo. Me la ricordo bella, agile, grande, veloce, e anche comoda. Mi piaceva un sacco starci dentro (meno quando facevamo viaggi lunghi, ma questa è un'altra storia) e mi ricordo che per molti anni ho disegnato sempre macchine sportive, mentre guardavo assiduamente – come pare facesse anche Briatore – Ken Falco.
...Poi la famiglia si ingrandì, mentre il mondo occidentale attraversava un periodo di shock petroliferi: i punti deboli della 124 Sport (piccolo bagagliaio, consumo superiore alla media) divennero preponderanti sul resto e mio padre decise di vendere il gioiellino (la storia meriterebbe un capitolo a parte, fatto di  passaggi di proprietà che non vanno a buon fine, spese eccessive, minacce con fucili da caccia, ecc.). L'entrata negli anni '80 fu così sancita dall'acquisto di una Ritmo D bianca: la differenza tra le due vetture dà il senso della chiusura definitiva di un'epoca, quasi una cesura epistemologica.
...Questa foto la dedico a mio padre che, guarda caso, oggi compie gli anni, giusto un giorno dopo del Generale Võ Nguyên Giáp che quest'anno ne ha fatti 100 (ma mio padre è più giovane): auguri a entrambi.  

1 luglio 2011

Buone vacanze

«Per vivere l'estate con filosofia, portatevi Nietzsche in spiaggia»

Eh, caro Fritz, non me lo dire, il mare è sempre peggio. Ti ricordi quella volta, io, tu, Malwida e Peter Gast a caccia di meduse a Ischia? Non mi ricordo se c'era pure Lou, ma sai, si invecchia... Sì, lo so, si diventa ciò che si è, ma io questa cosa non è che l'ho mai capita per davvero... Cioè, se prendiamo in considerazione la decrepitudine del corpo, il rincoglionimento generale, la perdita della memoria, non è mica una bella teoria... per esempio: tu sei stato sempre scarso a racchettoni? Secondo me no, secondo me da giovane eri un mago dei racchettoni. E ora invece la mandi sempre nell'acqua e a me tocca andare a raccattarla tutte le volte... Bada che culo quella lì! No, niente, dicevo che tua sorella, in effetti, è stata una bella stronza. Lo so, quel simpaticone protonazista del marito non ha aiutato, ma secondo me lei era già sulla buona strada...
Vabbé, ci facciamo una birretta? Tanto quest'anno c'è il mare mosso e l'omino che faceva i corsi di surf non si è ancora visto. Secondo me non verrà. Altro che eterno ritorno dell'identico, qui va tutto in vacca, sempre di più.
Ma dimmi una cosa: sei stato tu, vero, a scrivere "Dioniso contro il crocifisso" in Rue Orfila? Dai, a me puoi dirlo. Solo che non hai finito perché sono arrivati i flics e tu ti sei dégonflé, come dicono i francesi, quei francesi che tu ami tanto... e dai, sù. Non lo dico a nessuno, Fritz. Lo so che dentro di te si cela un'anima da writer. Ecco: sei un writer! Sei diventato un writer perché tu sei un writer
Sì, mi sposto dal sole.
Sì, fa caldo.

17 maggio 2011

Dell'andouillette
Divagazione gastronomica con epilogo politico-morale


Una delle prime specialità della gastronomia d'oltralpe che mi capitò di assaggiare fu l'andouillette, sorta di salsiccia di trippa che viene servita cotta alla brace oppure cruda e affettata. Forte della mia educazione culinaria a base di morzeddhu (che dalle mie parti prende il nome di spezzatino), frittole, jelatina e frattaglie varie, nonché grande estimatore della soppressata toscana (detta musotto in Romagna), dei ciccioli forlivesi (quelli della Salsamenteria Tomba sono già patrimonio dell'umanità, per quanto mi riguarda) e dei turcinieddi leccesi, mi lanciai senza paura alcuna su questa prelibatezza. Ma il mio entusiasmo si smorzò subito quando misi in bocca la prima fetta di salume: il sapore era francamente troppo forte, persino per me.
La lasciai nel piatto e in seguito non ebbi più il coraggio di assaggiarne ancora, neanche per levarmi il dubbio se fosse stata magari quella andouillette lì in particolare a disgustarmi (eppure era garantita «AAAAA», una specie di marchio di qualità concesso dall'Associazione Amici e Amatori dell'Andouillette Autentica).

Qualche tempo dopo, a cena con amici italiani a Parigi, mi venne sollecitato un parere sull'andouillette. Io risposi un po' evasivamente, ma aggiunsi, subdolo: «de gustibus», con l'obiettivo dissimulato di ottenere una seconda opinione, anche se indiretta, sulla pietanza. Umberto, da buon sardo amante di frattaglie, non si tirò indietro e cadde nella mia trappola [1]. L'andouillette alla brace arrivò bella fumante tra effluvi piuttosto sgradevoli e inquietanti. Ci guardammo negli occhi, un po' imbarazzati, poi Umberto inforchettò il primo pezzo di salume, lo mandò giù, e con la sua consueta franchezza esclamò: «Ma... sa di merda!».

Ecco il vero problema dell'andouillette: l'odore intenso e un certo retrogusto fecale costituiscono un ostacolo, IMHO, veramente insormontabile.

Ma la storia non finisce qui. A dicembre, durante un brevissimo viaggio a Lione, mi ricapita l'andouillette nel menu de Le Nord, una vecchia brasserie ripresa da Paul Bocuse, e stavolta mi dico: ma sì, via, proviamo; tanto più che avevo letto sulla Routard che l'andouillette di Lione, a differenza delle altre, è fatta con la trippa di vitello (ed avevo subito realizzato, come in un lampo, che le altre andouillettes sono fatte invece con trippa e interiora di porco, cosa che secondo me influisce non poco sul sapore finale).
L'andouillette de Lyon, che ho mangiato alla brace con salsa alla senape, si è infatti rivelata davvero niente male; anche se nell'aria aleggiava un odore un po' pungente, il gusto era di trippa. Piuttosto deciso, a dir la verità, ma sempre trippa era.

Édouard Herriot - tre volte Presidente del Consiglio della Terza Repubblica Francese, più volte ministro, sindaco di Lione per quasi 50 anni - soleva dire: «La politica è come l'andouillette: deve saper di merda, ma non troppo».


[1] A onor del vero, la cosa fu facilitata dal menu ridotto del ristorante e dalla dieta piuttosto stretta a cui si stava sottoponendo a causa di svariate intolleranze alimentari.

6 aprile 2011

Una religione chiamata cricket

L’altra sera passavo per Louis Blanc e la strada era piena di gente. Cercate di capirmi: erano le 5 e sarei arrivato ancora in ritardo al 421° campionato vesperale del Bar Bouilhou sotto casa. Poco prima della Chapelle, ingorgo mostruoso: strombazzamenti e urla a tutto spiano. Il marciapiede non riesce a stipare la piccola folla che deborda sulla strada, come alla partenza di un treno per Bombay. Il concerto di clacson non li sfiora neppure: ci snobbano, con la bocca aperta, un mezzo sorriso da neonato, gli occhi lucidi di birra e la sigaretta in bocca. Qualcuno, con un movimento spazientito della mano, fa loro segno di levarsi di torno ed eccoli che, guardando da un’altra parte con le braccia al cielo, strillano dei lamentosi «Birdie num num» in direzione di un ristorante pakistano. Mi dico: «ma questa povera gente sta facendo la fila per imparare la gastronomia francese, la bistecca col purè, la salsiccia con le patate fritte, per lavorare in una brasserie qualsiasi… che miseria». Osservo dunque un po’ meglio, addolcito dalla triste sorte di questi figli di Peshawar gettati sul selciato parigino, in pieno sfasamento culturale. Mi chiedo se i tipi non siano arrivati là perché hanno visto le «Bouffes du Nord» [1] non lontano, scambiandolo per un’agenzia interinale di cucinieri formati all’istante. Ma la loro attenzione era tutta rivolta alla vetrina di un negozio di televisori. Sugli schermi mi pare di riconoscere dei giocatori di cricket, tanto rigidi quanto le loro wickets. All’improvviso la folla indietreggia e scrosciano gli applausi. Cricket! Incredibile… Abbasso il finestrino e intravedo il mio amico del ristorante indiano dove vado talvolta a rimpinzarmi di Chicken Tikka Masala al prezzo di due birre. «Ashish!» urlo dalla portiera, «Ashish!». Il mio amico si gira e si apre un passaggio nell’assembramento raggiungendo, tutto felice, la mia portiera.

- Tutto bene?
- Ashish! Cos’è ‘sto delirio?
- Non ne sai niente? Semifinale del mondiale di cricket. India-Pakistan.
- Ah, un buon motivo per bloccare la strada, allora! Presto avrete tutto il vicinato alle calcagna. Chiameranno la polizia.
- Ma no, lo sanno tutti qui. Non è Paris St. Germain–Marsiglia, è cricket, sai, noi lo guardiamo tutti insieme. Il cricket è la pace, è una religione.
- Ok, il cricket è la pace, ma io avrei bisogno di passare. A che ora finisce?
- Al calar della notte.
- Ma stai scherzando?
- No.
- E vi succede quando si passa all’ora legale… Ok, Ashish, fammi un piacere. Di’ ai tuoi amici di aprire un varco, là davanti, cosi possiamo tornare a casa.
- Ok, aspetta un attimo.

Ashish si piazza davanti al cofano della mia auto, inchinandosi cortesemente con le mani giunte. A poco a poco, come un signore del Punjab, riesco ad avanzare regalmente tra la folla dei fedeli che mi inviano ostensibili segni di deferenza. Arrivato faticosamente al semaforo, sono salvo. Tuttavia mi assale un rimorso: non ho nemmeno chiesto ad Ashish quale squadra stava vincendo. Esco allora dall’auto per riparare alla mia scortesia, ma la silhouette di Ashish è già scomparsa in mezzo alla folla, compatta davanti alla vetrina del negozio di tv. Lo chiamo a gran voce un’ultima volta: «Ashish! Quanto? Ashish! Quanto?... » Neanche il tempo di finire la frase che un funzionario in uniforme mi appoggia la mano sulla spalla: «Ma faccia pure con comodo, prego!». Io divento più bianco di Louis Blanc e balbetto: «Ma no, aspetti! Ashish è il nome di un mio amico, in indù significa Benedizione, o qualcosa del genere»
«Ma certamente», mi dice l’agente guardando il pacchetto di sigarette rollate e le cartine sul cruscotto. «E anche lei è un appassionato di cricket? Documenti!»

[1] Les Bouffes du Nord è il nome di un teatro, ma bouffe significa anche cibo.

Cricket Story, di Olivier Villepreux:

2 dicembre 2010

Piet Mondrian / De Stijl al Centre Pompidou

Uno dei vantaggi di vivere a Parigi (piuttosto che – poniamo – a Casalpusterlengo), sta nel poter partecipare alle inaugurazioni di un numero notevole di mostre. Nonostante il freddo, il traffico, le cacche di cane sui marciapiedi, il sovraffollamento dei mezzi pubblici e la scortesia di chi li usa (i passeggini che occupano tutto lo spazio sugli autobus, la gente che entra e esce da tutte le porte senza rispettare l’ordine – cribbio ma è tanto difficile rispettare un po’ di ordine e disciplina dico io), il tasso inverosimile di turisti italiani presenti ogni giorno dell’anno, le pizze a 12 euro e il peggior caffè dell’orbe terracqueo, a Parigi basta una tessera annuale del Centro Pompidou per essere invitati ai vernissages. Ieri sera dalle 20 in poi, per esempio, si inaugurava  la mostra Mondrian / De Stijl. Forte della mia esperienza pregressa in serate mondane, stavolta evito di ingurgitare cibo di qualsiasi sorta, pregustando il lauto cocktail che verrà offerto agli esclusivi invitati della mostra. Arrivati dentro il museo, inizia ad assalirmi un dubbio atroce: vuoi vedere che non c’è nessun banchetto? La mostra è affollata di gente, tutta esclusiva come il sottoscritto: nessuna presentazione, nessuna celebrità, ma soprattutto nessun cocktail: né un bicchiere di champagne, né un’oliva, né un brezel, neanche un pastis. Niente di niente. E io non avevo più nemmeno le mie quattro caciottine di pecora. In preda allo sconforto, inizio a chiedermi che caspita di senso ha andare ad un’anteprima di una mostra: per il gusto di dire gnégnégné l’ho vista prima io? Per l’ebbrezza di poter stare fino alle 23.00 nel Pompidou (mentre gli altri comuni mortali vengono buttati fuori alle 21)? Che brividi! Ma dov’è quell’aria di decadenza che dovrebbe ammorbare i luoghi dell’arte contemporanea? Dove i bagordi sfrenati alla faccia della fame nel mondo? Perché d’improvviso questa austerità? Coté pipòl, poi, era veramente la catà: un tizio mezzo matto che faceva ritratti estemporanei dei visitatori, carampane assortite, una coppia di giovani ragazze italiane (dialogo carpito al volo da Franz: « - Ma Gianluca chi? - Quello che c’era l’altra sera alla festa. - Quello biondo? - Sì, quello che ha comprato quel loft a S. Germain.»). Controllando a stento i morsi della fame e la trasformazione in lupo mannaro, approfitto a questo punto un po’ della mostra.
Mondrian inizia a dipingere come Klimt. Poi dice no, questo lo fa già Klimt, e allora prova a dipingere come Munch. Ma il ragazzo non è soddisfatto e si vede che cerca ancora la sua strada. Per un po’ si mette dunque a dipingere come Klee (e devo dire che questo Mondrian / Klee non mi è dispiaciuto per niente). Ma il pittore olandese vuole essere originale. E si chiede: cos’è che non è stato ancora fatto? Cos’è che è originale? Nascono così i quadratini colorati che, al pari dei sgari di Fragolari, renderanno Mondrian un grande protagonista del novecento. Tutto molto bello, solo che: sorpresa! I quadratini colorati li avevano già fatti i suoi colleghi Theo Van Doesburg e Vilmos Huszár, dieci anni prima. Erano delle vetrate, certo (tra l’altro molto belle: io e Franz abbiamo deciso che ne compreremo qualcuna che andrà a sostituire l’oblò del bagno), ma proprio uguali uguali ai dipinti che dopo farà Mondrian. Alla fine della mostra il sospetto serpeggia: il vero genio era Van Doesburg, ma oggi tutti si ricordano di Mondrian. Così è la vita.

Opera rivelazione della mostra: I lavoratori del porto (1916) di Bart Van der Leck.


Riferimento culturale di un certo livello: la puntata 3 della serie 1 di “Hustle – i signori della truffa”, dove un finto quadro di Mondrian viene rifilato ad una gallerista mentre Jaime Murray (la sbarellatissima Lila di Dexter S02) infinocchia una guardia ed esce dal museo con il vero quadro appiccicato sulla maglietta.

Riferimento del tutto pretestuoso con il quale si chiude questo post: clip di Apocalippo dei Piet Mondrian. «Misantropiaaaa… portaci viaaaaa….»

23 novembre 2010

Requiem per una vecchia carrozza


Tu entri nel métro a tarda sera, linea 2. Ti aspetti le carrozze nuove, quelle spaziose, silenziose e con l’aria condizionata, ma niente da fare. Da quando hai cambiato casa e non frequenti più tanto la linea 2 (l’hai tradita giocoforza con la 3) non becchi quasi mai il nuovo convoglio. Lo vedi spesso da fuori, lassù, sul ponte di ferro tra Jaurès e Stalingrad, che scivola scintillante sull’acqua del Bassin de la Villette. Ma stasera, sui binari, arriva puntualmente il treno scalcagnato che tappa i buchi nelle ore non di punta. Ti siedi, guardi in alto e ti colpisce subito un cartello, fallace e piuttosto datato, che ti descrive il percorso della linea 8. Ma tu sei seduto – su ciò hai pochi dubbi – sulla linea 2 in una sera di novembre del 2010, e il tuo treno non è certo diretto a Petuški. In un lampo di lucidità, comprendi allora che la RATP ha riciclato un convoglio davvero antiquato: osservando la grafica del cartello sei tentato di dire che la carrozza risale agli anni ’80 ma non hai alcuna prova per sostenere concretamente questa tua appercezione estetica. Esamini dunque i dettagli più a fondo, e con l’aiuto di una wikipedia qualsiasi provi a circoscrivere la questione. Due indizi ti permettono subito di stabilire con relativa precisione il terminus ante quem del pregevole manufatto:
1) la linea 1 non arrivava ancora alla Défense, avendo il suo capolinea ovest à Pont de Neuilly e 2) la fermata Grands Boulevards si chiamava ancora Rue Montmartre (e a causa di ciò frotte di turisti confusi scendevano davanti al Musée Grevin pensando di trovarsi al Sacro Cuore). Ma le due date sono ancora troppo recenti (aprile 1992 - estate 1998). Il manufatto è esteticamente precedente al '92, tu lo percepisci in modo chiaro e distinto. Ma hai bisogno di un altro indizio per dimostrarlo. Guardando meglio, sul lato destro del cartello, noti uno sfondo rosa salmone che colora la tratta da Charenton a Créteil, e una scritta: tarification spéciale banlieue. Scopri allora che questa tariffazione fu abbandonata il 1 novembre 1982, quando la linea 8 si adeguò alla tariffa unica, e ottieni così la prova inoppugnabile dell’appartenenza della segnaletica ai radiosi anni '80.
Così il caso è chiuso, risolto e messo nella naftalina.

1 luglio 2010

Non si sa mai

- Rabbino, ho una domanda.
- Fai la tua domanda, Birkat Hacohanim.
- Bene. Gli ashkenaziti, dopo aver mangiato la carne, aspettano cinque ore prima di bere del latte, i sefarditi tre. Immaginiamo che io - Dio non voglia - debba mangiare con uno di questi ebrei che vengono dal freddo e che abbia voglia di bere del latte quattro ore dopo la sbobba, o Dio solo sa che carne fanno in Polonia.
- Ebbene?
- Ebbene, ho il diritto, in quanto sefardita, di bere del latte oppure dovrei conformarmi, per rispetto, ai suoi costumi di ebreo polare?
- Tu conosci degli ashkenaziti, Birkat Hacohanim?
- No.
- E allora perché mi fai questa domanda?

(Joann Sfar, Le chat du rabbin 2. Le Malka des Lions)

5 maggio 2010

Ricorrenze

Il posto dove fu colpito a morte è sul lungarno Gambacorti di Pisa, tra la via Toselli e la via Mazzini. Si lascia sulla sinistra, venendo dal ponte di Mezzo, il palazzo del Comune e si cammina lungo una ininterrotta serie di piccole botteghe che forse esistono da secoli e hanno mutato soltanto il genere dei loro minuti commerci. Una mescita di vino al numero 10, all’angolo di via delle Belle donne; un tappezziere al numero 13; un aggiustatore di macchine fotografiche al 14; la calzoleria “La rapida” al 16; l’agenzia Sbrana, compravendita e affitti, al 18; il circolo Enal al 19.
Alle spalle dell’isolato, via della Nunziatina, nell’intricato quartiere del sottoproletariato rosso. Di là dall’Arno, sotto i palazzi aristocratici e inaccessibili, lo scalo del carbone con la lapide che ricorda l’approdo della barca di Garibaldi ferito sull’Aspromonte.
Non lontano dal lungarno Gambacorti, tante volte citato nei rapporti dei commissari di pubblica sicurezza, nei verbali dei sostituti procuratori della Repubblica, nelle sentenze dei giudici istruttori, nelle cronache dei giornali e nelle relazioni dei periti medico-legali, splendono i gioielli dell’arte e della religione, Santa Maria della Spina, San Paolo a Ripa d’Arno e, a pochi passi, la chiesa di Santa Cristina dove, il 1° aprile 1375, santa Caterina da Siena ricevette le Sacre Stimmate, “cinque lucidissimi raggi sanguigni, usciti dal Santissimo crocifisso sull’altare e andati a ferire le mani di Caterina, i piedi, il suo castissimo e virgineo petto”.
Ma la sera del 5 maggio 1972, né la patrona d’Italia, né la presenza antica di bellezza e di arte, né i segni della storia e della cultura servirono a salvare dalla furia della polizia, tra la bottega del vinaio e quella del tappezziere, un giovane non alto, ricciuto, gli occhiali da miope, il viso serio e sofferto, vestito con una giacca marrone, un paio di pantaloni di lana nera, una camicia con le maniche lunghe dai disegni fantasia color giallo arancione. Franco Serantini, di vent’anni, sardo, anarchico, figlio di nessuno nella vita come nella morte. 
(Corrado Stajano, Il Sovversivo)

16 marzo 2010

Considera l'aringa

Ottanta aringhe. Non la crederanno mai, caro signore.
(Ernest Renan, BnF, NAF 14197, f. 256)

Giace lì, in fondo al frigo. Non posso buttarla, mi piange il cuore. Ma non ho più il coraggio di mangiarla. Fortuna che ho preso quella con l'affumicatura dolce. L'ho anche marinata, con amore, secondo ricetta tradizionale: olio, limone, cipolla, aglio e qualche grano di pepe (già che c'ero potevo metterci un peperone, per aggiungere un tocco di freschezza).
Non fraintendetemi: io adoro le aringhe. Io adoro tutto ciò che è pesce affumicato e affini: il salmone, l'aringa, il tonno, il pesce spada, l'haddock, il fegato di merluzzo, le uova di lompo, le uova di salmone, le uova di trota, la bottarga, la tarama. E l'aringa che giace in fondo al frigo è riuscita deliziosa, morbida e profumata. Ma ha un grosso difetto: si ripropone. E non c'è verso di buttarla giù. Tu cammini per strada, e lei torna su. Scendi in métro, e lei sale su. Vai in piscina, e lei fa i carpiati dentro di te. Ho provato anche con la Magnesia Bellagamba, gentilmente offerta dall'amico Crapula, ma niente. La Magnesia Bellagamba, sì. È come la Sanpellegrino, solo che la fanno a Roccafelina (EN) ed è la preferita di Nitto Santapaola. Che se davano retta a quel politico e regalizzavano la mafia, immaginatevi il marketing: «Magnesia Bellagamba. Fornitori della Real Cosca dei Santapaola dal 1952». Oppure: «Caponata Mussomeli: Su mandato di S.A.R. Leoluca Bagarella, Principe di Corleone. Qualità e tradizione dal 1946». Come il Twinings. Altro che sostegno del Made in Italy. Ma vabbé, torniamo al pesce. La colpa è tutta mia. L'ho vista in offerta e non ho saputo resistere.
Era dallo scorso autunno che avevo voglia di aringhe. Ne ho mangiata una fantastica a Yport, in Normandia: mai mangiata un'aringa così buona. Ho chiesto all'oste e lui mi ha detto: «Eh, ma questa è fresca! Ora è il periodo, poi si affumica tutto e si conserva». Il giorno dopo, a Fécamp, ho visto il manifesto della Sagra dell'Aringa. La "più grande fiera mondiale delle aringhe" si sarebbe tenuta da lì a una settimana. Tornato a Parigi chiamo subito mio cugino per proporgli il viaggio:
- Dai, pensa che roba: aringhe freschissime a strafottere a due lire al chilo, i cori dei marinai normanni, stages di affumicatura, la corsa nel barile. Non vorrai mica perderti un evento del genere. Dai che poi ci scriviamo pure un articolo divertente, in stile David Foster Wallace, magari qualcuno abbocca pure e ce lo pubblica.
Lui ha tentennato un po', prima di chiedermi:  «ma dici sul serio?». Per un attimo ci ha creduto. Poi è passato subito all'accampamento delle scuse: «ma in treno? Come si fa? E poi torniamo in serata? No, no: non ce la posso fare». Io ci sono rimasto un po' male. Mica per il rifiuto. È stato lo spiraglio di possibilità, quell'apertura di un istante che mi ha precipitato davanti ad un molo, due sacchetti di plastica enormi in mano pieni di aringhe puzzolenti, maglietta a strisce e cappellino da marinaio con pompon rosso, piuttosto alticcio, in mezzo alle danze tipiche normanne. Con la prospettiva di rientrare sano e salvo a casa e preparare cinque chili di aringhe marinate, buone come quella di Yport, e mangiarne per una settimana.
Ecco quello che succede quando si gioca coi sentimenti.

27 febbraio 2010

Lavoriamo qui! Viviamo qui! Restiamo qui!

Il collettivo dei cineasti per i sans-papiers ha realizzato un film per sostenere lo sciopero dei lavoratori clandestini e la richiesta di regolarizzazione.
Da Audiard a Zonca, passando per Cantet, Chéreau, Costa Gavras, Desplechin, Guédiguian, Jaoui, Kechiche, Klapisch, Tavernier, più di 350 nomi del cinema francese si sono schierati con la lotta dei lavoratori sans-papiers. In vista della giornata senza immigrati di lunedì prossimo, buona visione.



12 gennaio 2010

Souvenirs de Noël

Montaigne! toi qui te piques de franchise et de vérité, sois sincère et vrai si un philosophe peut l’être, et dis-moi s’il est quelque pays sur la terre où ce soit un crime de garder sa foi, d’être clément, bienfaisant, généreux ; où l’homme de bien soit méprisable, et le perfide honoré.
(Jean-Jacques Rousseau, Émile ou de l’Éducation)

Avanti il prossimo, si sta facendo scuro
(Jean Fabry, Capra&Cavoli)

- Non riconosco più questo paese. I suoi abitanti (giacché "cittadini" è termine che implica un grado di coscienza che non scorgo più) sono stati conquistati da un populismo desolante, lobotomizzati dal qualunquismo spaventoso dei discorsi del Potere. Questi discorsi! Ah, li sento ovunque, tutti uguali. Moltiplicati come un virus mortale, hanno estirpato dalla coscienza degli abitanti di questo paese ogni barlume di umanità, lasciandoli vegetare in una palude infetta di ignoranza, grettezza, cafonaggine, odio verso i deboli, gli stranieri, i diversi e viltà e sottomissione verso i potenti. Questi uomini e queste donne sono morti per sempre, cara Edelmira, e non fosse per l'azzurro profondo dei Vostri occhi, non proverei alcun rimorso se la più spettacolare delle eruzioni ricoprisse domani di un grigio sudario questa landa desolata.
- Non dite sciocchezze, Don Augusto. Le vostre parole piene di rancore non raggiungeranno mai il mio cuore puro, quand'anche i vostri maldestri complimenti riuscissero a trarmi in inganno. Quelli come voi sono stati condannati dalla Storia e si rifiutano di guardare in faccia la realtà. Ma non li vedete come camminano per le strade, vestiti bene e all'ultima moda? Guardateli, mentre ammirano le vetrine e riempiono caffè e ristoranti. Questo è un paese operoso, Don Augusto, un paese ricco e felice, dove non c'è posto per chi semina discordia attraverso il nichilismo.
- Se questo è il vostro ultimo pensiero, arrivederci, cara Edelmira.
- Addio, Don Augusto.

(Edelmira Thompson de Mendiluce, Il secolo che ho vissuto, Buenos Aires, 1968)

9 gennaio 2010

Lettere Persiane

Durante l'ultima lezione, una mia allieva, notando l'orario di una scuola media riportato sul libro, mi dice:
- Ma cosa vuol dire "religione"? C'è un'ora di religione, a scuola, in Italia?
- Beh, sì.
- Ma nelle scuole pubbliche?
- Sì.
- Ma che cos'è? Cioé, si fa "storia delle religioni", oppure...
- Oppure.
(A quel punto, sui volti del mio uditorio, che va dai 25 ai 75 anni, si comincia a dipingere un'espressione basita, come se dietro le quinte, uno sceneggiatore autistico premesse freneticamente il dito sul tasto F4).
- Cioé, si insegna la religione cattolica.
- Sì, la religione cattolica.
- Ma fino al liceo?
- Sì.
- E chi la insegna?
- Spesso, almeno ai miei tempi, erano dei preti o delle suore che facevano lezione (scopro poi che nel a.s. 2008/2009 gli ecclesiastici si sono ridotti fino al 13%. La crisi delle vocazioni, pare).
- Ah.
- Oppure dei laici scelti direttamente dalla curia (oramai la curia sceglie solo il 30% degli insegnanti, dopo il provvido intervento dell'ex-ministro Fioroni del 2003, ma si riserva comunque il diritto di revocare l'idoneità dell'insegnante).
- Ah.
- E vengono pagati dallo Stato.
- Allora in Italia non c'è la separazione tra la Chiesa e lo Stato.
- Beh, diciamo che è un punto che fa discutere. Ci sono opinioni diverse. C'è un concordato, tra l'Italia e il Vaticano, che prevede, tra le altre cose, l'ora di religione.
- Ma è obbligatoria?
- No. Se uno non la vuole fare, non la fa.
- Ma allora non è del tutto facoltativa.
- Ma sì. Se uno non vuole, si avvale del diritto di non farla e può fare una disciplina alternativa, oppure niente.
- Sì, ma di default c'è la religione cattolica.
- Sì.
- E quanti sono quelli che non la fanno?
- Pochi, credo (un 9% sul territorio nazionale, che va dal 18,3 della Toscana all'1,5 di Basilicata e Campania).
- L'anno scorso sono stata in Italia e ho assistito all'inaugurazione di una Biblioteca Universitaria, di un'università pubblica. C'era il sindaco, il prefetto, ma anche il Vescovo, che ha benedetto la Biblioteca.
- Bé, è normale... Qui in Francia è diverso. Immaginate una nuova biblioteca della Sorbona inaugurata dal Sindaco di Parigi, dal Prefetto, dal Rettore e dal Vescovo...
(Risate)
... che la benedice.
(Risate più forti).
- E' una cosa che non possiamo nemmeno immaginare.
- Eh no. Sapete, l'Italia è un paese profondamente cattolico.
E mentre pronunciavo quest'ultima frase, mi balenava in mente una pubblicità vista a natale in TV: "Crocifissi da collezione. Un'opera straordinaria in 30 fascicoli. In regalo, con il primo fascicolo a soli 4 euro e 99, il Crocifisso di Cimabue. Da Hobby&Work".
Amen.

7 gennaio 2010

Cose che si imparano viaggiando in aereo

1) Che io sappia, solo gli italiani si accalcano in un ammasso informe e ansioso davanti al gate d'imbarco, nonostante gli inviti a restare seduti finché non viene chiamato il proprio gruppo. Uno dice: "lo fanno per prendere il posto migliore". Ma ho visto le stesse scene, giuro, anche nel caso dei posti prenotati. Misteri della Fede.
2) Non ci sono più le hostess di una volta. Non che io ne abbia mai incontrate dal vivo, ma l'idea quasi trascendentale della hostess, protetta dalla pisanissima Santa Bona, non corrisponde più alla realtà. E' quello che pensi ogni volta che incroci lo sguardo di quel leone marino che va su e giù per il corridoio.
3) L'aereo è l'autobus del Terzo Millennio. E negli autobus, tutti i bambini, per essenza, fanno un casino inenarrabile. Mi astengo qui da considerazioni malthusiane: noto soltanto en passant che i bambini cinesi, nei luoghi pubblici, piangono molto ma molto meno degli altri bambini.
4) Come corollario del punto precedente, la cosa davvero indispensabile per viaggiare in aereo sono un paio di tappi per le orecchie o, ancora meglio, delle cuffie intrauricolari. Specie se avete scelto la compagnia superlowcost che vi bombarda di pubblicità fastidiosissime e insistenti per tutto il viaggio.
A questo punto vi sentite stanchi, nervosi e stressati. Aprite il dépliant del cibo servito in volo e arriva l'illuminazione: non avete più dubbi, vi fate un cappio.

Fatti un Cappio.
Cappio: il cappuccino che ti tira su.