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6 novembre 2013

Il paradiso degli orchi di Pennac al cinema

Prima o poi doveva accadere: il romanzo di Daniel Pennac Au bonheur des ogres (Il paradiso degli orchi), primo volume della fortunata Saga Malaussène, è diventato un film.

Se non avete letto il libro, assisterete a una commedia romantica, anodina, a tratti divertente, recitata in maniera mediocre (tranne il protagonista: lui è bravino e si vede), che si svolge sullo sfondo di una trama poliziesca abbastanza confusa e piuttosto incomprensibile. 

Se avete letto il libro, il vostro giudizio sarà allora inevitabilmente più critico. Piccola premessa: pur non essendo un fan di Daniel Pennac, devo riconoscere che Au bonheur des ogres è un polar divertente, scritto con piglio ironico e inventivo, illuminato da una galleria di personaggi molto riusciti a cominciare dal suo protagonista, il famigerato Benjamin Malaussène di professione capro espiatorio. L'adattamento per il grande schermo si è svolto all’insegna di una brutale semplificazione della materia letteraria. I personaggi sono stati appiattiti, svuotati di qualsiasi interesse e ridotti a pure macchiette. Stojil, il guardiano notturno serbo (interpretato da un Emir Kusturica che si limita a ripetere le battute), non ha neanche un briciolo dello spessore che gli aveva dato Pennac; Tante Julia ha il sex-appeal di una pompa di benzina (e non è affatto colpa di Bérénice Bejo); il commissario Coudrier, fine funzionario bonapartista, diventa una comparsa qualsiasi.

Ma non sono solo i personaggi a soffrire l’adattamento; tutta la satira graffiante verso le «convenzioni borghesi» viene disinnescata. Scordatevi il rapporto d’amore di Malaussène nei confronti della sorella Clara, la sua preferita, rapporto che Pennac tiene sempre su un filo sottile («Tu as vraiment le sens de la famille chevillé à l’âme, Benjamin ; tu es amoureux de ta petite sœur Clara depuis sa naissance, mais comme ta morale t’interdit l’inceste, tu fais l’amour avec une autre que tu appelles ta tante.»), anzi, scordatevi proprio Clara: nel film, semplicemente, non c’è! Come non c’è il migliore amico di Malaussène, Théo, l’impiegato gay con le sue giacche dai colori impossibili (e dunque, niente scena surreale dei travestiti brasiliani che irrompono nella stanza da letto). Sparito Théo, sparito anche il suo esercito di vecchietti che scorrazzavano nel Grande Magazzino (una delle invenzioni più azzeccate del romanzo). E a questo punto sorge spontanea la domanda: ma allora, senza Clara, senza Théo, senza vecchietti, tutta la sottotrama poliziesca che fine fa? Per farla breve, diciamo che la storia viene riarrangiata alla meno peggio, attorno alla figura del padre di Sainclair, che diventa il capo degli Orchi.

Dello spirito polar del romanzo di Pennac – uscito nel 1985 per la Série Noire di Gallimard – non rimane insomma davvero nulla. Gli sceneggiatori hanno limato tutte le asperità, censurato tutto quello che poteva risultare scandaloso (!) o sconveniente (!!), trasformando il racconto in una simpatica e un po’ bizzarra storiellina d’amore, girata con stile televisivo, buona da far vedere ai bambini a natale: perfino Julius, il cane che «puzza come una discarica» la cui lingua sa di «pesce rancido e sperma di tigre», appare sullo schermo pulito e bellino.

PS. Mi ha detto mio cugino: «Certo pure tu che ti vai a vedere ‘ste robe. Che t’aspettavi?».
In effetti, da quando ho la carta illimité sono diventato molto meno selettivo.

22 ottobre 2013

Pasolini nel metrò

Dal 16 ottobre al 26 gennaio, la Cinémathèque française dedica una grande mostra a Pier Paolo Pasolini e a Roma. 
La RATP partecipa ribattezzando due stazioni: Place d'Italie diventa Piazza d'Italia e Rome, Roma
Le pubblicità lasciano il posto a manifesti di foto di scena.




3 ottobre 2013

The Broken Circle Breakdown (aka Alabama Monroe)


Mi avessero detto “andiamo a vedere un film su una bambina di 7 anni malata di cancro”, avrei risposto tranquillamente: vaffanculo, ci vai tu a vedere un film su una bambina di sette anni malata di cancro. Perché semplicemente non ho voglia, perché si sa già come va a finire, perché è un soggetto difficile, complicato, dal quale nove volte su dieci viene fuori un pastone disonesto e indigeribile. 
Ma l’avviso fu più subdolo e meno spoileroso: “è molto bello, però portati i fazzoletti che si piange”. Dunque ci sono andato solo moderatamente prevenuto, anche perché il precedente film di Felix Van Groeningen, La merditude des choses (De helaasheid der dingen), mi era piaciuto e parecchio. 
E alla fine ho fatto bene: in The Broken Circle Breadown il regista maneggia la storia con una delicatezza sorprendente, lontano da qualsiasi voyeurismo e da facili didascalismi (grazie anche al montaggio in flashback che smorza da subito lo scontato climax verso la catastrofe). 
Ne è venuto fuori un film forte, doloroso ma a tratti anche divertente, dove l’ironia grottesca e assurda, molto “belga”, della merditude des choses riaffiorava di tanto in tanto. 
Una coppia di attori fantastici (parentesi: gli attori belgi sono bravissimi, gli attori danesi sono bravissimi, gli attori iraniani sono bravissimi, gli attori italiani sono ormai dei cani e delle cagne senza remissione possibile. Ho visto al cinema il trailer di Miele proprio prima di questo film: il paradigma è ormai Nico di Un posto al sole) e una colonna sonora molto bella (astenersi non amanti del bluegrass), riscattano ampiamente qualche lungaggine e pesantezza, specialmente verso il finale.

8 maggio 2013

Quei luoghi comuni sui ritals duri a morire

Colpa anche di Aldo Maccione, che si è prestato a simili misfatti:

   

Trattasi dei titoli di testa di «Pizzaïolo et Mozzarel» (1985) di Christian Gion. Per altro, i commenti di You Tube sono quasi tutti incensatori. C'è gente disperata che non riesce a trovare il DVD, altri che «muoiono dalla voglia di avere la colonna sonora», altri ancora che Aldo, c'est la classe!

(Grazie a ealcinemavaccitu per avermi permesso di colmare questa enorme lacuna nella storia dei rapporti culturali francoitaliani).


20 marzo 2013

Zero Dark Thirty

Se era per quei burocrati cacasotto pacifisti dei democratici col cazzo che lo prendevamo Osama Bin Laden. Meno male che alla CIA c’è ancora in giro gente come noi, quelli della vecchia guardia dei tempi gloriosi di George Dàbliu, quando mica ci voleva un triplo permesso in carta bollata per torturare 'sti cazzo di islamici talebani. Anche se poi ve lo dico, torturare non è mica una passeggiata: ogni cento torturati bisogna un po’ staccare, tornare a fare un lavoro d’ufficio che se no si rischia lo stress, è un lavoro stressante mica una passeggiata. E comunque bisogna ringraziare la tenacia di una donna cazzuta più cazzuta degli uomini, una motherfucker che contro il sistema di poltronari burocrati obamiani è riuscita a convincere tutti alla fine che nella casetta piccolina in Abbottabad si nascondeva lui, il nemico numero 1.

E se anche mi vedete così figa, che mastico il chewingum coi rayban e capelli al vento, che rido in mezzo ai boys barbuti, forzuti e bellissimi dei SEALs, ho un cuore, sapete? E infatti nell’ultima scena piango, sola nell’aereo, perché siamo così, dolcemente complicate, sempre più emozionate, delicate ma potrai trovarci ancora qui nelle sere tempestose, portaci delle rose, nuove cose e ti diremo ancora un altro sì. 

Fuck Yeah!


19 settembre 2012

Chris Marker, 1921-2012

L'avevano strappato, ma Monsieur Chat l'ha rifatto, in memoriam. Nel quartiere ci dev'essere un estimatore, perché a due passi, in Rue Vitruve, ho trovato questo:


Una buona scusa per riguardare il suo corto Chats Perchés.


22 agosto 2012

Un pomeriggio nel salotto di Natalia Aspesi, chiacchierando intorno all’ultimo Batman di Christopher Nolan


Natalia mi accoglie in uno spazioso salotto, con il suo solito garbo e savoir faire di ospite premurosa ma non insistente. I cedri del Libano che cingono la sua casa restituiscono all’ambiente un fresco naturale e per niente insulso, perfetto baluardo contro la settima e ultima ondata di caldo luciferino che assedia la città. Prendo posto su un comodo canapé rivestito di morbido chiffon e ricoperto di vecchi merletti. Natalia fa portare il tè in un elegante servizio di Richard Ginori profilato in oro, e ci mettiamo subito a discorrere amabilmente di cinematografia.

Il tema centrale è ovviamente The Dark Knight Rise, ultimo capitolo della trilogia di Batman firmata Christopher Nolan che esce in questi giorni nelle sale italiane ma che, sia io che Natalia, abbiamo avuto modo di vedere in anteprima. Sul tavolo basso in ciliegio e vetro di murano giace una copia del quotidiano La Repubblica del 20 agosto 2012, aperta a pagina 19.

– Ho apprezzato molto il suo articolo, cara Natalia – dico prendendo in mano il giornale con una certa nonchalance – e concordo totalmente con i grandi meriti di Nolan, tra i quali c’è «quello di aver creato immagini soprattutto notturne di minaccioso incanto, senza far uso dell’insulso 3D». Certo, dico io, la maggior parte delle scene (e certamente tutte quelle importanti) di questo film sono girate di giorno ma perché sottilizzare? Il minaccioso incanto resta poi pur sempre tale.

– Il latte è troppo freddo?
– No, il latte va benissimo, grazie. Ma parliamo della durata. Un film «lunghissimo e labirintico» (non avrei potuto trovare aggettivi migliori), che dunque «andrebbe visto minimo due o anche tre volte, (e forse per questo nel solo primo fine settimana in Usa ha incassato 164 milioni di dollari) se ci si intestardisce, nel frenetico accavallarsi di colpi di scena, a voler capire tutto quello che succede». Devo confessare che anch’io durante la visione ho avuto dei momenti di improvvisi vuoti di memoria, e mi giravo di qua e di là nell’impressione di essere in un luogo estraneo. Una volta ho persino urlato: «ma chi ha spento la luce?». E poi non avevo pensato alla possibilità delle doppie e triple visioni in USA come causa dell’incasso mirabolante: è un’intuizione geniale, in effetti. Ma perché intestardirsi? Che siamo venuti a fare al cinema, mi domando? Siamo venuti a intestardirci a voler capire? Il punto, a me pare è il «frenetico accavallarsi». Possiamo dire che il film di Nolan è un film di «frenetico accavallarsi»? 

– Ho delle madeleines appena sfornate: ne gradirebbe una?
– Non avrei l’ardire di accettare ma non posso sottrarmi a tale gentilezza: volentieri, grazie! Dunque, dicevamo, l’«accavallarsi» è la cifra stilistica di questo film. Ed è proprio per questo che è inutile un razionale intestardirsi. Basta allora «lasciarsi andare al cinegodimento di tutti gli spaventi e intrighi e volonterosi attori: e filosofie e lunghissime discussioni sul bene e sul male; più inseguimenti e accavallamenti di macchine, e scontri polizia-criminali e criminali-criminali, e colli rotti e ossa spezzate e ammazzamenti a non finire e luoghi di tortura e ricordi crudeli e palazzi che saltano in aria e fogne invase dall’acqua».
Mimo un leggero applauso con tre dita sul palmo della mano, ma aggiungo subito: – Tuttavia, Natalia, quel «cinegodimento», secondo la mia sempre umile opinione, trovo sia neologismo un po’ volgare. Ecco, l’ho detto, ma non me ne voglia, la prego.

Ma veniamo al côté rosa del film: qui devo dire che è, come al solito, insuperabile. A parte «i baffoni a spazzola» di Wayne che mostra di non apprezzare (quando invece, secondo me, quell’aria da baffessa un po’ Freddie Mercury non gli stava affatto male), ho fatto salti di gioia nel leggere il dettaglio della «nera tuta con orecchie da pipistrello, che gli fa pettorali enormi». E poi, la voce di Wayne, che «mormora dolcemente solo concetti tombali». Ma l’acme è quella strizzatina d’occhio appena accennata, quel leggero colpo di fioretto sulla tuta senza la zip che chiude il paragrafo successivo. Mi permetta di citarlo per intero: «Ci si abbandona sereni al fracasso dello schermo però anche chiedendosi, in un momento di lucidità, perché non tanto Batman, che con quella tuta di gomma senza una sola zip avrebbe certo non poche difficoltà, ma l’elegante languido, sempre sofferente Bruce Wayne, lasci del tutto intonse le due belle signore dalla voce sensuale che gli soffiano suadenti nell’orecchio, la Cotillard dallo sguardo assassino e la Hathaway dalla bocca color fiamma».

(Alla fine della citazione non riesco a trattenere una risatina che cerco di mascherare come posso con il tovagliolo azzurro di fiandra finemente ricamato a punto croce. Ma all’improvviso ho come un vuoto di memoria. Panico. Mi balena davanti una scena di Bale e la Cotillard dallo sguardo assassino che trombano ignudi su un tappeto davanti al caminetto acceso, in una scenografia da volgare softcore anni ’70. L’ho sognata, quella scena, oppure era vera e dunque il momento di lucidità di Natalia che si sveglia di soprassalto sarà avvenuto dopo, lasciando la nostra critica digiuna di scene piccanti e abbandonata al fracasso dello schermo? Il dubbio mi rimane tutt’oggi poiché non ebbi il coraggio allora di approfondire tali scabrose questioni).

– Il dettaglio piccante è però pur sempre un dettaglio; si ritorna subito infatti alla critica seria, profonda (oserei quasi definirla militante, se l’aggettivo non fosse ormai abusato). Batman e la politica. E qui però ho un dubbio: pur accettando la smentita di Nolan sul legame tra il film e l’attualità, la sua affermazione «al massimo si può pensare che se fosse americano, Nolan voterebbe Romney» vuole forse nascondere un velato parallelo tra il regista inglese e Clint Eastwood?

Natalia chiede il permesso di alzarsi a chiudere ancora un po’ le tende di macramé, a schermare quei pochi raggi di sole che sono riusciti impavidi a oltrepassare le ultime barriere dei cedri.
Prendo il suo gesto come una risposta affermativa con qualche distinguo, e continuo nella nostra amabile conversazione.
– Certo le cose non sono mai tutte bianche o tutte nere, ed è pur vero che «il pensiero, lungo il lungo film, si ottunde, si rinuncia a dare un senso alle trame dei cattivi e alle crudeltà dei cattivissimi». In ogni caso, la chiusura del pezzo è magistrale. Non ricordo più qual è il nome di quella figura retorica che consiste a dividere un elenco in classi contrapposte, ma per semplicità lo chiamerò il gioco del non è un film per / è invece un film per. Mi lasci dire, cara Natalia, che lei eccelle in questo gioco. Ma vediamo nel dettaglio. Questo non è un film per «bambini e adolescenti». Non è nemmeno un film per «adulti desiderosi di divertirsi, data la sua insistenza sulla fine e la morte». Per chi è, dunque, questo film? «forse per filosofi, studiosi comportamentali, psichiatri e giallisti, oltre a scienziati delle comics e superstudiosi che seguono Batman sin dal film di Tim Burton dell’89».
Qui devo confessarle che ho avuto davvero un’illuminazione. Non che io possa essere considerato un filosofo (certo non ardirei mai a tale titolo vuoto e insulso, un po’ come il 3D) ma ho forse capito perché io e i miei amici siamo usciti estasiati dalla visione del film. Neanche a farlo apposta, infatti, ci ero andato con Gertrude Gomasio, dottoranda in studi comportamentali, Jeanne Allegretti, all’ultimo anno di specializzazione in psichiatria, Sauro Sandroni, noto giallista della Valdicecina e last but not least Jean-Luc Del Carpio, il più grande scienziato delle comics di Parigi e provincia, autore del maggior blog sull’argomento: Oggi le comics (oggilecomics.wordpress.com).

Ringrazio infine la Aspesi per le sue recensioni sempre ficcanti e pregne di senso e significato, come pregno è il voto finale: 4 su 6, un film «da vedere», dunque, che si posiziona tra il «si può vedere» e il «da non mancare».  

Natalia, sempre gentilissima, prima di congedarmi mi offre un bicchierino di rosolio che io gentilmente rifiuto vista l’ora tarda. Prendo la mia paglietta ed esco tra i cedri profumati, con l’impressione di aver vissuto un grande momento di critica cinematografica.

9 febbraio 2012

Il Festival del Cinema di Télérama


Da quando abbiamo iniziato ad andare al cinema a Parigi, siamo subito diventati fedelissimi del Méliès di Montreuil per almeno tre motivi essenziali: è vicino a casa (3 fermate di metro), è sostenuto dal Dipartimento Seine-Saint Denis (soldi pubblici che vanno alla cultura: il peggior incubo di ogni liberista) e dunque costa meno. Inoltre ha delle ottime sale e sostiene una programmazione di qualità, con dibattiti e iniziative.
Ma ogni tanto è bello cambiare, e il Festival del Cinema di Télérama è una buona occasione per scoprire nuove sale cinematografiche (e per recuperare i film persi nella scorsa stagione).
Il festival funziona così: 15 «migliori film dell’anno» (14 selezionati dalla redazione, uno dai lettori) vengono riproposti per una settimana, in un numero cospicuo di sale a Parigi e nel resto della Francia. Comprando la rivista si ottiene un coupon con il quale si può assistere ai film in questione, a una tariffa speciale di 3 euro.
Quest’anno siamo stati particolarmente bravi, riuscendo a infilare un film al giorno per sette giorni (Drive, Black Swan e Le gamin au vélo li avevamo già visti; Habemus Papam, preveggenti, l'abbiamo piratato; Incendies, Les Bien-aimés, La guerre est déclarée e L'Exercice de l'Etat ce li siamo persi). La maratona è stata piuttosto dura ma ne è valsa decisamente la pena.
Ecco a voi la breve cronaca.

Mercoledì 18
Cinema Le Brady – Albatros, Boulevard de Strasbourg.
Sala piccina picciò e schermo pure ma, come al solito, eravamo in seconda fila, dunque il dettaglio è trascurabile. La sala è anonima ma graziosamente arredata con manifesti dei classici della fantascienza anni ’50: Le jour que la terre s’arrêta, Blob, La fiancée de Frankenstein, The incredible shrinking man, ecc.
Essential Killing, di Jerzy Skolimowski. Un prigioniero talebano viene trasferito – dopo aver subito numerose torture – in una base americana in Polonia. Durante il viaggio, un furgone sbanda e lui scappa. Il film è fatto tutto da questa continua fuga nella neve e nel freddo, un’immersione Into the Wild tragica e, soprattutto, non consenziente. Il rapporto uomo-uomo ridotto al grado zero dell’animalità: animali sono considerati i talebani e vengono dunque trattati come tali, animale sarà l’istinto di sopravvivenza del fuggitivo. Soggettive inquietanti e traballanti che si fermano al momento giusto (prima dell’inevitabile capogiro), pochi dialoghi, un grande Vincent Gallo. Film Notevole.

Cinema Le Champo, in Rue des écoles. Sei anni a Parigi ed è la nostra prima volta in questa sala storica: shame on us. Sala 2 piccolina, poltroncine supercomode, soffitto illuminato da tantissime stelline: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me. Perfetto adagio per il film proiettato sullo schermo, Bir zamanlar Anadolu'da (Il était une fois en Anatolie) di Nuri Bilge Ceylan, probabilmente il film più bello visto quest’anno (ne ho già parlato ampiamente qui).
Cinema sempre Le Champo, sempre Sala 2, sempre il cielo stellato sopra di me ma stavolta l’uomo col fiasco dietro di me: il proiezionista, evidentemente ubriaco, ha avuto grossi problemi con la messa a fuoco. Maledetto.
Tomboy, di Céline Sciamma, è un film che affronta un tema piuttosto difficile (l’identità sessuale e la preadolescenza) in maniera estremamente delicata e felice. Da vedere.

Cinema Studio 28, in rue Tholozé. Questo cinema storico di Montmartre è anche uno dei più belli di Parigi: la sala dal soffitto altissimo, il sipario rosso che si apre prima della proiezione, il piccolo bar con la micro terrasse attigua. Che ci venite a fare in vacanza a Parigi se non visitate posti come questo?
Jodái-e Náder az Simin (Une séparation), di Asghar Farhadi, o Divorzio all’iraniana. Il regista muove un po’ troppo la camera a mano per i miei gusti, ma il suo obiettivo è quello di stare incollato ai visi e alle espressioni dei suoi personaggi: bisogna ammettere che ci riesce egregiamente, mettendo in scena in maniera secca e precisa lo svolgersi di un dramma familiare. Attori bravissimi che si muovono tra burocrazie e complesse relazioni sociali. Molto bello.

Cinema Les 7 Parnassiens a Montparnasse. Sala strapiena, resta solo la prima fila disponibile; ma le poltrone sono davvero troppo vicine allo schermo, che è pure piuttosto grande. Franz resta a vederlo in posizione astronautica, io ci rinuncio e mi metto in corridoio, seduto a terra accanto all’estintore.
Le Havre è un Kaurismaki classico, pieno di omaggi (ancora una volta i Blues Brothers!), citazioni e autocitazioni. Ma questa volta il lieto fine è talmente lieto e totale (gli italiani titolano non a caso: Miracolo a Le Havre) da risultare un po’ stonato: speranza nel futuro o utopia estrema? A sentire Kaurismaki stesso, il film sarebbe «un contrappeso a una realtà troppo tetra». Già in Ho affittato un killer, Joe Strummer cantava: «Some dreams are made for children / But most grow old with us». Continuiamo a sognare, dunque. Applausi alla fine del film (evento raro).

Lunedì 23.
Cinema L’Archipel, Boulevard de Strasbourg. La sala è piccola, con un bar (?) in fondo. Aria (e purtroppo anche audio) da cineclub.
La piel que habito di Pedro Almodovar è tratto da un romanzo di Thierry Jonquet (Mygale) che per fortuna non ho letto (c’è un «colpo di scena» a circa metà film, che definirei radicale). Il ritmo non è abbastanza serrato per essere davvero hitchcockiano, né il tema abbastanza graffiante per essere buñueliano (i due autori più citati dalla critica favorevole). Rimane un film «vintage», piuttosto godibile, a cui manca però il nerbo. Banderas invecchiato assomiglia sempre di più a Sean Connery.

Cinema Le Nouveau Latina, Rue du Temple. C’è un bar, al primo piano, molto bello e molto rosso. Fuori piove e dentro profuma di Yogi Tea. La sala 2 è minuscola e strapiena (questo festival è decisamente un successo). Sembra di stare nel salotto (grande), in casa di qualcuno.
Per Les Neiges du Kilimandjaro di Robert Guédiguian vale lo stesso commento a Kaurismaki: è un «classico» Guédiguian (Marsiglia, i portuali, la CGT, il trio Ascaride-Darroussin-Meylan), dunque prendere o lasciare. Io ho preso, con qualche importante riserva (recitazione piiuttosto sciatta – a parte Ariane Ascaride, sempre perfetta –, qualche meccanicità di troppo nella sceneggiatura, un digitale fastidiosamente sgranato, specie nelle scene con poca luce). Il film è stato spesso accusato di «buonisentimentismo» ma è una fesseria. In realtà ha una conclusione piuttosto pessimista, con una frattura decisa tra la generazione sconfitta dei padri e quella (X, Y o Z) dei figli.

30 gennaio 2012

Bir zamanlar Anadolu'da (C'era una volta in Anatolia)

Le aspirazioni verso l'alto non sono le nostre. Gli eroi, i martiri, i geni e gli entusiasti non sono per noi abbastanza silenziosi, pazienti, sottili, freddi e lenti.
(F. Nietzsche, Frammenti Postumi, 1886, 7[70])


1. La lunga notte del commissario Naci.
Il commissario Naci ha un sacco di problemi: ha smesso di fumare, ha un figlio malato, non riesce più a trovare il vero yogurt di bufala (quello che vendono alla latteria vicino al commissariato è pastorizzato e al supermercato non ne parliamo: hanno quello “parzialmente scremato”. Un orrore). Ma il problema più grave del Commissario Naci è Kenan, che ha confessato un omicidio ma non si ricorda (o fa finta di non ricordarsi) dove ha seppellito il corpo. Una carovana di due macchine e una jeep percorre di notte una campagna fatta di dolci colline brulle, fermandosi ad ogni fontanella. Il procuratore (con evidenti problemi di prostata) è ansioso di risolvere il caso. Il medico legale è presente, ma ha la testa altrove. La notte è lunga, Kenan non parla e il commissario, a un certo punto, perde le staffe. E’ il momento di fare una pausa, altrimenti finisce male. Il sindaco del villaggio è contento di ospitare alte personalità e ne approfitta per chiedere al procuratore di intercedere presso il prefetto per l’allargamento del cimitero. Manca una camera mortuaria, gli emigrati vogliono vedere i propri cari prima della sepoltura ma finché arrivano, i morti puzzano. Sono questi i problemi reali che scaturiscono improvvisamente, con un’ironia tutta naturale, a spezzare la bellissima poesia di cui è fatto questo film. La notte si chiude con l’apparizione simbolica di un angelo: Tarkovskij è vivo e lotta insieme a noi. 


2. L’alba livida di Keskin.
L’apparizione scioglie l’intrigo: Kenan decide di ricordare e all’alba tutta la comitiva ritrova la sepoltura. La luce del giorno scopre una terra brulla, dei visi segnati (le facce incredibili che hanno questi attori), un cadavere sotterrato. L’ibrido felicissimo tra l'occhio orientale (i critici hanno citato Čechov e Dostoevskij) e la realtà fisica, quanto più meridionale e mediterranea possibile, è la cifra del film. E l’ibrido è sempre al lavoro, impedendo l’estetizzazione dello sguardo, riportando sempre sulla terra ogni tentativo di volo metafisico, mantenendo un equilibrio tra la poesia e la realtà, tra un estetismo simbolista (la scena quasi Stalkeriana della mela che cade dall’albero e rotola nel ruscello) e un verismo iperrealista (la scena stupenda dell’autopsia). L’ironia diventa spesso vera e propria comicità, come quando fa cozzare la lingua procedurale della giustizia contro la povertà del reale, l’assurdità della burocrazia incarnata dal sergente dei Gendarmi (Siamo a Frittole-di-sopra o a Frittole-di-sotto?), con la scarsità dei mezzi materiali. Una comicità quasi sciasciana e surreale (e questa Anatolia è davvero una Sicilia – un Meridione tutto Unheimlich: Franz mi ha ricordato, giustamente, anche Camilleri) che emerge in molte scene come quella, bellissima, della riesumazione: la battuta su Clark Gable, il sacco per il cadavere, il problema di come trasportare il corpo, l’autista che raccoglie i meloni.

Trovato il cadavere, la comitiva rientra a Keskin, dove ritrova le vedove e gli orfani, i figli malati e le vite di prima. Il film si chiude sul rapporto a due tra il procuratore e il medico legale, invischiati in una sorta di indagine su un passato oscuro iniziata la notte prima e che coinvolge sempre di più i due funzionari, fino alla consapevolezza, inevitabile e struggente, dell'accaduto.

Fotografia meravigliosa, musica assente o quasi (ma il film è sensualissimo, pieno di suoni e - quasi - di odori), C’era una volta in Anatolia, di Nuri Bilge Ceylan è un grosso film, come non ne vedevo dai tempi di There Will Be Blood
Un film Umano, troppo umano.

19 gennaio 2012

Hugo Cabret: l'omaggio di Scorsese a Georges Méliès

La tomba di George Méliès al Père Lachaise
Ha tanti difetti l'ultimo Scorsese: una Parigi molto cartolinata, tra Ratatouille e Amélie, i buoni sentimenti a profusione, il soggetto liso del classico film di natale, le scene tiralacrime, qualche effetto speciale troppo chiassoso.

Eppure l'omaggio a Georges Méliès (nel film un preciso Ben Kingsley) è davvero sentito, commosso e commovente, e alla fine produce una bella fiaba per bambini (e non solo), con una piacevole atmosfera steampunk e alcune sequenze memorabili, come quella che apre il film o quella del sogno che rievoca lo spettacolare incidente ferroviario della Gare Montparnasse. Molto bello, anche se un po' didascalico, il ripasso di storia del cinema nella Bibliothèque Sainte-Geneviève (spacciata per una fantomatica biblioteca di un'ancor più fantomatica Accademia del Cinema).

Ma la parte migliore del film – e quella più scorsesiana: che si tratti di (italo)americani, di blues o di cinema, alla fine c'è sempre la tentazione del ritorno alle radici – è indubbiamente la ricostruzione delle riprese sul set della Star Film, con i draghi meccanici, gli scheletri, i trucchi di montaggio: un'ode al cinema e alla meraviglia che produce. 

18 ottobre 2011

This must be the - oh shit! (E mo basta veramente però)

... Questa è l'ultima, poi giuro che mi cheto. In realtà sarà più una recensione di una recensione, dunque una sega all'ennesima potenza, o se preferite una critica zombi (se recensire è un po' morire, recensire una recensione è morire due volte oppure rinascere non-morto con istinti parassiti).
... Il brandello di carne insanguinata che ha attirato il mio cannibalismo è stato dilaniato da Malcom Pagani, su Il fatto quotidiano, che è andato letteralmente in estasi davanti a This must be the place. E ha scritto un vero e proprio panegirico su quello che secondo lui è - senza alcun dubbio - il miglior film di Paolo Sorrentino.  Un film straordinario
Per fattura ed etimologia. È fuori dall’ordine senza compiacimenti. Sublima l’estetica, ma ha una trama plausibile. 
... Peccato che l'estetica di questo film sia tutto fuorché sublimata: è anzi talmente sovrabbondante che diventa fine a se stessa; una vernice sbrilluccicante su una macchina vuota, senza motore, che esprime il peggior manierismo, lo stile stiloso, la posa artistica. Dopo dieci minuti già non se ne può più: il carrello che avanza, il carrello che arretra, plongée, contre-plongée, il carrello che gira intorno; è un tripudio inutile di dolly, una danza insensata e continua di movimenti di macchina. In questa antologia da manuale non manca niente: né un movimento in avanti con dissolvenza su un lenzuolo (il dis-velamento del cinema, capito, no?), né un ralenty buttato lì alla cazzo (ben altro senso nei ralenty di Drive). A questo si aggiunge una colonna sonora che più didascalica non si può, con pianoforti plinplon e violini incomprensibilmente sparati a un volume assurdo.
... Verrebbe voglia di suggerire una piccola Cura Ludovico per Malcom Pagani: una visione a palpebre bloccate de La Région Centrale di Michael Snow. Ma siccome sono buono, mi limito a consigliare un piccolo ripasso, barattando tre ore di tortura con «un minuto e quaranta di cinema puro». Come dice bene quello zombi di mio cugino: «Il carrello non è sempre necessario, a volte anche una piccolissima panoramica può essere una questione morale».

... E passiamo al contenuto. Nonostante percepisca netti «afrori di Oscar», Pagani utilizza l'eufemismo «plausibile» associato alla trama, tradendo la palese vacuità del soggetto e la fragilità della sceneggiatura. Ma il vero problema è questo manierismo estetico applicato a un tema come il nazismo e i campi di sterminio che, alla fine, manda tutto in vacca. Nella superficialità si stempera tutto, si perde il senso, si ha la sgradevole sensazione che ciò che importa è la posa, il gesto (e allora parliamo pure di sarcicce, tanto va bene così).
... Ma forse noi non abbiamo capito, ci siamo fermati alla superficie, poiché il recensore celebra un Sorrentino che va oltre
Tocca i tabù, scava in profondità, brucia gli schemi e li ribalta. Ti porta sulla strada. Ti fa annusare gli odori. Gli hamburger bruciati nel cuore dell’America predesertica, dove l’acme del sogno è una citazione nel Guinnes dei primati “abbiamo il pistacchio più grande del pianeta qui, sai?”, i motel sono vuoti dodici mesi l’anno e la disperazione, quando pulsa, assorda. Anche per questo, This must be the place è un film straordinario. 
... Pagani scrive come se non ci fosse una storia del cinema. E non c'è bisogno di avere chissà quale cultura cinematografica qui: basta fare il nome dei Fratelli Coen. Non c'è nessuna profondità nella macchina da presa che si avvicina al tir che trasporta il gasolio, scende sotto il pianale e - ohhhhh! - risale piano, si avvicina al SUV di Cheyenne e si ferma sul viso del pellerossa che gli chiede il passaggio (Cheyenne/il pellerossa, capito la metafora oscura?) Non c'è nessuna profondità nell'hamburger bruciato «nel cuore dell'America predesertica». Pagani scrive come se (e Sorrentino gira come se) negli ultimi anni non ci fossero state serie TV con una qualità spettacolare, che con 30 milioni di dollari producono un'intera serie, che con il cachet pagato a Eve Hewson (che Pagani ci svela essere la figlia di Bono Vox: ah sì? Ma interessantissimo!) ci pagano un Bryan Cranston.
... Odori? Tabù? America Profonda? Ci sono più cose in un bucket di Los Pollos Hermanos, caro Pagani, di quanto ne mostrino gli hamburger bruciati di This must be the place.
... È davvero incomprensibile quest'estasi ipnotica davanti a un'America di cartapesta, frutto di un esotismo ormai consunto e fuori tempo massimo. Per carità, questa pagliuzza esotica è bella, lucida, rifinita, perfetta. Infinitamente più figa della trave locale:
A Barcellona Pozzo di Gotto, vicino a Messina, è stata inaugurata nel 1998 una statua creata dall'artista siciliano Emilio Isgrò: rappresenta un seme di arancia ingrandito a dismisura e alto ben 7 metri.
(Strano, ma vero! n. 27869, La Settimana Enigmistica n. 4147, 17 settembre 2001)

29 settembre 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino (NB: il film, non la canzone dei Talking Heads): la mia recensione!

- Sono andato a vedere This must be the place di Sorrentino.
- Ah, e com'era?
- Ho fatto un post-recensione: non l'hai letto?
- Mah, no. Non l'ho visto proprio. Come l'hai intitolato?
- This must be the place o della vertigine autoriale. Ma non ha avuto un gran successo, in effetti.
- Ah, allora è per quello. Il titolo.
- Eh?
- Ma sì: la gente ha letto This must be the place e ha pensato che fosse un post sulla canzone.
- Ma no, era abbastanza chiaro. Parlavo di dolly, ho messo pure il video di René Ferretti, in Boris, sai la scena del dolly, quando fa: «drogatelli, drogatelli, drogatelli...».
- No, no: haivolutovedereparigi + This must be the place = Talking Heads. E' apodittico.
- Cioè, vuoi dire che nel mio blog non si parla di cinema?
- Ma no: però ne avrai parlato 3 volte. Di musica molto di più.
- Mah, forse hai ragione. E la recensione non era una recensione vera e propria, visto che si rivolgeva soprattutto a chi il film l'aveva già visto. Però proprio tu parli, sui titoli dei post e le recensioni...
- Perché?
- Ti devo ricordare il dialogo dell'altro giorno al telefono?
- ?
- Allora te lo ricordo. Ti ho chiamato e ti ho detto: Pronto, ciao, come va?
- Bene. Ah, lo sai? Sono andato a vedere Habemus Papam di Nanni Moretti.
- Ma scusa, non c'eri già andato?
- No.
- Ma se l'hai recensito sul tuo blog, qualche giorno fa!
- Ma no. Non era mica una vera recensione!
- Eh?
- Ma figurati se faccio una recensione di Habemus Papam. E poi, ti immagini che faccio un post e lo intitolo: «Habemus papam due punti la mia recensione punto esclamativo» (risate).
- Ah beh, in effetti mi pareva un po' strano anche a me. 
- Eh. Ma l'hai letto il mio post?
- Certo che no. Sai, pensando fosse una «vera» recensione, mi sono astenuto. Visto che non ci sono ancora andato. Sai, gli spoiler...
- Beh, certo, ma lo puoi leggere: non c'è nessuno spoiler.
- Ma dunque, se non l'avevi visto, che hai recensito?
- L'ho sognato.
- Cosa?
- Ho sognato il film. E l'ho recensito. Il sogno, non il film. Usando qualche scena che si vede nei trailer. Puoi leggerlo, non c'è nessuno spoiler.
- Ah. Però non credo che l'abbia capito nessuno che non era una vera recensione: i commenti al post mi parevano seri. 
- Eh infatti. Mi sa che non l'hanno capito.
- Sarà che non sappiamo fare i titoli dei post. Oppure siamo troppo avanti... ma insomma, alla fine com'era 'sto film?
- Beh, dai: era meglio il sogno.

3 marzo 2011

[SPOILER] Pubblicità


Canal+ ha lanciato una campagna pubblicitaria sui film in prima visione tv. La grafica non è male e gli slogan sono abbastanza simpatici («Non appena prende una nave, Di Caprio si mette nei guai»).
Ma lo spoilerone della camicia di forza era davvero necessario?

3 marzo 2010

Il mio eroe è un ladro di polli (due recensioni al prezzo di una).

All'inizio ti chiedi, dubbioso: ma ha davvero intenzione di riempire un'ora e mezza con questi buffi pupazzetti? Dopo qualche minuto, tuttavia, il film si mette in moto e da lì in poi è tutto in discesa. Trovate intelligenti, colpi di scena, corse contro il tempo: avendo tutti gli ingredienti per fare un buon film, la maestria di Anderson riesce a sprigionare la bellezza di un cinema artigianale, ancora in grado di creare meraviglia e stupore: in poche parole, una vera goduria, divertentissimo e a tratti commovente, come in una delle scene più belli del film, quando Mr. Fox incontra il lupo, la peggiore delle sue fobie.
Attraverso le avventure di questa comunità di animali, Anderson tratteggia un apologo ironico e gentile - che non manca tuttavia di forza - sulla natura e sulla società.

Stupore e meraviglia che mancano totalmente, invece, in Shutter Island. Due ore e venti di elucubrazioni psicologiche che girano attorno a se stesse per sfociare ancora - nel 2010, wow! - sul più che abusato meccanismo della linea sottile tra realtà e finzione, tra pazzia e sanità mentale. Ma stiamo scherzando? 140 minuti? Scorsese magniloqueggia sempre di più, deborda, strafa, urla attraverso una colonna sonora tanto ricercata (Ligeti, Cage, Penderecki) quanto didascalica e pedestre, cercando sempre l'effettaccio, come se Hitchock non fosse mai esistito, come se Truffaut non glie l'avesse mai chiesto - a scanso di equivoci - che cos'è la suspense, e come se lui non avesse mai risposto.
Per 140 minuti, Scorsese ti fa: "Bu!", ma il thriller è talmente telefonato e prevedibile che non c'è proprio verso di spaventarsi, né di appassionarsi a un enigma la cui soluzione è perfettamente chiara dopo 20 minuti. Il film scorre piatto, lento e banale, senza un guizzo, senza un'emozione. Certo, il marcio di questo polpettone è nel manico, e Scorsese rimane comunque un maestro: qualche movimento di macchina magistrale non manca, qualche inquadratura notevole, qua e là, c'è. Ma è tutto, e decisamente non basta. Di Caprio, con l'espressione rimasta sintonizzata sul "matto" Howard Hughes, ci prova ogni tanto, ma non c'è niente da fare. A mezz'ora dalla fine, il "giallo" viene svelato (ohhhh!). E tu dici: e mo'? Ci sarà sicuro un colpo di scena! Ma Scorsese abusa ancora della tua pazienza e si permette pure una mezz'ora di inutile spiegazione in flashback - roba che Ellery Queen che raccontava a tutti com'erano andate le cose nel salotto buono, al confronto, è cinema sperimentale - chiudendo così degnamente il peggiore dei suoi film.

17 dicembre 2009

Jim Jarmusch The Limits of Control

Il gelataio haitiano di Ghost Dog (Isaach De Bankolé) viene incaricato di un'oscura missione nella sala d'attesa di un aeroporto francese. Vestito di un completo petrolio cangiante, il nostro eroe solitario e silenzioso incontra una serie di personaggi con i quali scambia scatole di fiammiferi camerunensi di marca "Le boxeur" che contengono misteriosi numeri in codice. I messaggi cifrati lo porteranno da Madrid a Siviglia, e fino in fondo all'Andalusia, in una specie di terra di nessuno dove terminerà il suo viaggio, con un ritorno in immagini sui luoghi finti-reali di molti veri-finti Western.
Tra mosse di Tai Chi e "due caffè in due tazze separate", seguendo poetiche corrispondenze tra i quadri del Museo Reina Sofia e la "realtà", il protagonista attraversa una Spagna atavica ma allo stesso tempo attualissima, dove scorrono grattacieli, automobili, treni ultramoderni, deserti intemporali sullo sfondo di enormi pale eoliche.
Colonna sonora perfetta, inquadrature costruttivistiche, pochi monologhi in diverse lingue (francese, arabo, giapponese, creolo), palesi omaggi cinefili (Hitchcock, Welles, Kaurismaki), contrasti tra ombre dense e luci vivissime: un Jarmusch d'annata, da prendere o lasciare.

16 settembre 2009

Il giornale che vorrei leggere domani



Il giornale e il sito sono stati prodotti da quei mattacchioni dei The Yes Men. Vi consiglio vivamente la visione del loro film, The Yes Men fix the world, se, quando e come lo daranno in Italia. Io l'ho visto ieri sera su arte (ognuno ha la tv che si merita).

26 maggio 2009

Juve-Fantomas 1-0

Del brevissimo viaggio a Maastricht e Amsterdam mi è rimasto impresso il titolo di un film impossibile accennato a tarda ora a casa di un mio amico cinefago. Sarà stato l'eccesso di White Widow (8 euro il grammo, piuttosto cara, però i coffeeshops stavano chiudendo tutti, dunque...), ma allo scorrere del titolo del film di Louis Feuillade sul video (Juve contre Fantomas, del 1913), mi sono messo a ridere pensando al gioco di parole e ho detto "Juve-Fantomas 2 a zero". Lui, che è pure romanista, mi ha corretto subito: "No; Juve-Fantomas 1 a 0 al novantesimo, dopo un rigore fischiato per un fallo fuori area di Fantomas". Il trip ha raggiunto l'apice quando dopo le prime inquadrature ci siamo accorti che il commissario Juve somigliava preciso a Luciano Moggi. Da lì è iniziata una serie di considerazioni su calciopoli che si sono inevitabilmente riannodate a un dibattito pomeridiano su 15 anni di politica italiana. A quel punto, per evitare di prendere la cumplanare del dolore, il mio amico cinefago ha fatto partire Kontroll, un film ungherese molto bello, girato tutto nella metropolitana di Budapest. Ad Amsterdam, invece, non ho visto nemmeno una fermata del metrò; in compenso ci sono tanti tram bianchi e azzurri, allegri e scampanellanti, che vanno su e giù per i canali.