21 gennaio 2008

Into the wild

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Musica, immagini, atmosfere, tematiche: all'apparenza tutto cospira inesorabilmente a fare dell'ultima prova di Sean Penn l'ennesimo film fricchettone americano. A conferma di questa prima impressione, non manca una strizzatina d'occhio al naturismo e all'ecologia - che fa molto trendy - e un ammiccare un po' complice ad un misticismo radicale che profuma d'incenso, tipico di coloro che furono ieri apocalittici e sono oggi chierichetti, dei giovannilindiferretti insomma, che sembrano essere tornati molto di moda in quest'età di mezzo (che continua peraltro ad adorare gli orologi e a non conoscere il tempo).

Ma le apparenze non sono tutto e spesso (fortunatamente) ingannano. I quadri maestosi e possenti della natura selvaggia americana rivelano, a scrutarli da vicino, una riflessione non banale sul rapporto tra l'individuo e la società - sfida filosofica per eccellenza dell'epoca contemporanea - che dimostra come l'uomo non sia lupo all'altro uomo, e nemmeno a se stesso.

Il viaggio del giovane Alex Supertramp attraverso una Nazione di gente stranamente buona e affamata di sentimenti ha come fine l'utopia, molto americana, dell'individuo che considera la società come la fonte di ogni oppressione e aspira a vivere solitario into the wild.
H. D. Thoreau e il Tolstoj più mistico e reazionario (il ritorno alla campagna, il rifiuto della società moderna e del suo modo di produzione e distruzione) accompagneranno Alex nel suo progetto monastico e ascetico di comunione totale con la natura. Ma al vertice della sua solitudine, alla fine del viaggio, la possibilità stessa di un uomo al di fuori della società viene ad infrangersi contro scogli tanto materiali quanto teoretici. L'ultima riga scritta da Alex su una pagina del Dottor Zivago culmina un percorso che porta alla saggezza attraverso la sconfitta dell'opzione individualista e il suo superamento: l'uomo é definitivamente zoon politikon.

Ballatone similcountry di Eddie Vedder (non male, ma bisognava chiedere a Neil Young: forse ne sarebbe venuto fuori il suo capolavoro della maturità), fotografia lussuosa, panoramiche mozzafiato (a volte un po' troppo National Geographic), una regia che passa agevolmente dal taglio documentaristico a quello onirico e che si può permettere dei piccoli omaggi alla nouvelle vague (gli stop frames di Alex nella Metropoli) e al cinema flower power (lo split screen che richiama Woodstock, gli Hippies, un soffio di Canned Heat). Davvero un bel film.

PS: chissà come sarebbe stato vederlo a 16 anni... Di sicuro non avrei perdonato al protagonista di aver spezzato il cuore della "piccola Janis Joplin...": ma come si può? Bastardo...

1 commento:

Gianluca ha detto...

..capito per caso sul tuo blog.
All'inizio il film mi ha un po' irritato..come dici tu tutti buoni..solo il pestaggio dell'uomo delle ferrovie.
Ma io amo i film anni 70 e la musica, lo split screen, Hal Holbrook..beh come non commuoversi? in fondo un film onesto..

ciao