Prima o poi sarebbe dovuto accadere. Lo spirito di Giovanni Fabbri, in arte Jean Fabry, si è posato infine sulla
Ville Lumière. Quale meta più giusta per l'anima del misterioso
chansonnier che divenne anni or sono la musa dei
Jean Fabry?
L'inetichettabile band di Russi (RA) – che per i più attenti dei nostri 25 lettori non ha più bisogno di presentazioni – si è esibita a Parigi per ben tre giorni di seguito.
Il venerdì, nel quadro intimista del
Bistrot littéraire des Cascades, nel cuore del 20ème arrondissement, i nostri hanno deliziato lo stranito pubblico con un'esibizione che aveva il sapore di un concerto a sorpresa (un
surprise gig, come si dice in gergo). Tra applausi sentiti e i fischi di un albionico ubriacone, i Jean Fabry in formazione acustica volante hanno egregiamente affrontato il loro debutto parigino con un un apéro-concert. Da Gilbert Bécaud ai pappi dei pioppi (nella foto è immortalato il momento
botanique del concerto), chiudendo addirittura con
Stringi le viti di tanto in tanto.
Sabato sera, alla
Festa del libro e delle culture italiane (
Espace des Blanc Manteaux, in pieno Marais), è stata la volta della presentazione del CD dei
Capra&Cavoli Ambarabàcidicocò, pregevole manufatto artistico-musicale che ha ricevuto
l'ambito premio Soligatto. Dai Capra&Cavoli sono poi nati i Jean Fabry, ma questa trasformazione da Jekyll a Hyde non è che si sia notata molto, a riprova del fatto che la vena stralunata/demenziale degli uni non è poi così distante dalle filastrocche degli altri. L'annunciata metamorfosi ha però tratto in inganno qualcuno: un gruppo di amici è arrivato verso la fine dicendo: ma come? Noi siamo venuti ora per i Jean Fabry! No, guarda, veramente sono
lo stesso gruppo e hanno quasi finito...
In ogni caso siamo riusciti a trascinarli in bis e tris vari tra il francese (
Le poète, Jean Fabry), l'italiano (
Rotoballe, Cento, Punk Mentale) e il romagnolo (
E zir de clomb).
Domenica mattina, i Capra&Cavoli con Gianni Zauli e Laurence Barthomeuf (curatori del libro) hanno animato una simpatica sessione con i bambini veri. Tra le filastrocche tradizionali (
Pimpirulìn,
Uno due tre, un'incredibile versione mancuniana di
Sotto il Ponte di Baracca) e originali (
Ti dico una cosa, l'inedito
Tritone, l'ormai tormentone
Il Camaleonte che ha riscosso gran successo), i bimbi italo-francesi si sono divertiti un sacco: gli occhialini di pappi, i tubofoni di Marlo e la faccia di Antonio hanno fatto il resto.
Nonostante conti molto il fattore biografico (Antonio mi ha confessato:
«facciamo filastrocche perché abbiamo una bambina di sei anni; quando ne avrà sedici ci metteremo forse a fare disco-music»), credo che il ritorno all'infanzia sia un buon antidoto alla perdita di senso causata dall'attuale eccesso di informazioni.
Così non è un caso che anche l'ultimo – geniale – disco di
Philippe Katerine abbondi in
filastrocche strampalate,
lallazioni,
ecolalie.

Sono stati tre giorni intensi. Piegando due leggii e avvolgendo il cavo della pedaliera Korg di Antonio, mi sono anche guadagnato il titolo di
roadie dei Jean Fabry: roba che non tutti possono vantare nel proprio curriculum. Ma credo che rimarrò nella loro memoria più per la tarama, l'hummus, il caviar d'aubergine, i felafel e il pastrami di
Marianne.
E il cerchio si è chiuso, come un
zir de clomb,
comme un tour de pigeon.